venerdì 26 settembre 2014

Gender nelle scuole italiane, ora ci prova Amnesty International

La nota organizzazione internazionale ha presentato il manuale per insegnanti "Diritti Lgbti, diritti umani", nel quale si promuove il gender e si invocano provvedimenti legislativi su nozze gay e omofobia

 

Roma, (Zenit.org) Federico Cenci 

Non importa che il Pew Research Center abbia pubblicato un rapporto dal quale emerge che l’Italia sia l’ottavo Paese più tollerante al mondo nei confronti degli omosessuali. Non conta che, sempre secondo gli studi del think tank americano, il Belpaese sia quarto nella classifica delle nazioni che hanno compiuto passi da gigante nell’accettazione dell’omosessualità negli ultimi anni.
Ad Amnesty International non interessa nemmeno constatare che due governatori di altrettante Regioni del Sud Italia (Nichi Vendola in Puglia e Rosario Crocetta in Sicilia) siano dichiaratamente omosessuali, oppure che la presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini (terza carica dello Stato) abbia presenziato a un gay-pride come paladina delle istanze “arcobaleno”. Secondo la nota organizzazione internazionale, infatti, in Italia “la condizione delle persone Lgbti non ha conosciuto nessun miglioramento” e “viene oggettivamente aggravata dall’assenza di un’adeguata legislazione in materia di discriminazione omofobica”.
Motivo per cui Amnesty International ha deciso di intervenire, provando a scavalcare la sovranità del Parlamento, con un progetto educativo da introdurre nelle scuole superiori. Si tratta di una “guida per docenti” dal titolo Diritti Lgbti, diritti umani. C’è forse una ragione dietro la noncuranza dei dati pubblicati dal Pew Research Center: sotto la fiammella di Amnesty della tutela nei confronti di presunte discriminazioni, si condensa l’obiettivo di veicolare ideologie tese a stravolgere l’antropologia.
Ecco infatti come Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia, ha presentato il progetto: “Sono passati 25 anni da quando l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza. Per la prima volta, in un atto internazionale, i minori sono stati riconosciuti come protagonisti: persone che hanno il diritto di partecipare alle scelte che le riguardano, in grado di esprimere idee proprie e prendere decisioni”.
Per esempio, prendere decisioni sull’orientamento sessuale cui appartenere. È così che, all’interno della “guida per docenti”, gli insegnanti vengono persuasi circa il fatto che se un alunno “si sta interrogando sul proprio orientamento sessuale o identità di genere” è “fondamentale dare anche immagini positive della vita delle persone Lgbti”. Attenzione però, l’opera di propaganda va attuata con circospezione, poiché “persone molto vicine agli studenti (le loro famiglie, fidanzati/fidanzate, il gruppo di amici) potrebbero avere idee e comportamenti apertamente discriminatori nei confronti delle persone Lgbti”.
Di qui l’esigenza - scrive Amnesty International - di contattare “un’associazione Lgbti locale” per organizzare conferenze “in cui giovani omosessuali raccontino la propria esperienza di coming out”. Un modo per spingere sul pedale della propaganda ideologica e abbattere quelle “aspettative sociali” che “costringono donne e uomini in ruoli che non sono naturali ma socialmente costruiti”. Il manuale si riferisce a coloro che vengono curiosamente definiti cisgender, ossia “le persone la cui espressione e/o identità di genere è conforme alle aspettative convenzionali sul sesso biologico assegnato loro alla nascita”.
Una buona opera di propaganda - si sa - passa anche dal tubo catodico. È per questo che una sezione del manuale è interamente dedicata ai “film consigliati su visibilità e coming out”, in cui spiccano l’eloquente titolo di una pellicola scandivana, ossia Fucking amal, la trama di The perfect family, intenta a confutare l’idea di una felice famiglia radicata sulla fede cristiana, e la denuncia di una “società bigotta” del film ambientato in Salento Mine vaganti.
Ma non è finita, perché al posto di simili “stereotipi sociali”, Amnesty International punta invece a contribuire all’edificazione una legislazione ad hoc in Italia, che soddisfi i desiderata di alcuni gruppi omosessuali. Il nocciolo della questione è chiaro nel passaggio in cui viene espresso l’auspicio affinché “sia eliminata ogni forma di discriminazione nella legislazione sul matrimonio civile per le coppie omosessuali e garantiti pari diritti ai figli e alle figlie delle persone omosessuali”. Al contempo, si invoca l’introduzione di una legge che punisca i “crimini motivati da discriminazione per orientamento sessuale”. I contenuti degli opuscoli diffusi dall’Unar, usciti dalla porta della scuola italiana qualche mese fa, rischiano ora di rientrare dalla finestra appesantiti pure dall'esposizione politica.

Fonte: zenit.org

 

 

giovedì 25 settembre 2014

Sterilità in Occidente, «un’epidemia»

September 25th, 2014
LogoAvvenireCarlo Bellieni

U
n’epidemia di sterilità percorre il mondo indu­strializzato. Il quotidiano
 Bloomberg news in set­tembre traccia il calo demografico Usa, descri­vendo un’ipotetica 25enne felice di aver fatto cre­scere per un anno un bonsai, ma non ancora pronta per avere un cagnolino e «men che me­no un bambino»; il Telegraph lamenta che anche gli im­migrati, che finora avevano sostenuto il tasso di fertilità inglese, stanno accodandosi alla media di figli/donna dei britannici; e secondo un rapporto presentato al Parla­mento locale, la Corea del Sud va verso l’estinzione nei prossimi decenni, con un tasso di 1,19 figli per donna. Anche in Italia vediamo il minimo storico: 1,29 fi­gli/ donna secondo l’Istat, complice certo la crisi econo­mica, ma anche una riduzione patologica di fertilità. Già, perché anche chi vuole avere un figlio oggi vi riesce con molta più difficoltà di anni addietro. La rivistaEn­vironmental international di questo mese riporta un am­pio studio in cui mostra il legame tra inquinamento am­bientale, traffico, e infertilità; e in maggio su Fertility and sterility un importante studio riportava che la presenza di plastiche nell’organismo nei maschi porta un calo del 20% in fertilità. Per non parlare del tasso di infertilità che cala con l’aumentare dell’età materna (per moda o per esigenze di lavoro ormai sempre più avanzata): nel­le ventenni la possibilità di concepire durante un ciclo mestruale è 1 su quattro, ma cala a 1 su 5 a 30 anni per crollare a 1 su 20 dopo i 40 (dati American Society of Reproductive Medicine e ministero della Sanità cana­dese).
Crollano le percentuali di chi riesce a mettere al mondo un bebè, ma invece di ricercare le cause si continua a ignorare l’avanzare di un mondo inquinato e vecchio. E il ricorso alla provetta è frutto dell’illusione che «la medicina può tutto»
Il Daily Mail riporta che una coppia su sei in In­ghilterra ha difficoltà a concepire.
Insomma, la società del benessere è malata di sterilità, ma invece di puntare il dito su chi non ha fatto preven­zione – e i rischi sono sotto gli occhi di tutti, basti pen­sare al diffondersi di pesticidi, di plastiche, di solventi, di lavori stressanti, di gravidanze procrastinate – si dà la caccia a chi vuole discutere sulle glorificazioni acritiche delle tecniche di laboratorio per concepire. Così non va: la sterilità è in crescita.
C
resce per motivi sociali o ambientali: perché si fan­no figli quando inizia a diventare difficile concepi­re, o perché l’inquinamento genera nell’ambiente sostanze che entrano nell’organismo con una struttura simile a quella dei nostri ormoni, tanto che alla fine l’or­ganismo gli ormoni finisce per produrli di meno con va­rie
 conseguenze, tra cui l’infertilità. E in questo clima epidemico, di coppie che arrivano al­ladisperazione perché non riescono a fare figli, tutto quello che vediamo pubblicizzato a gran voce sui gior­nali sono i mille modi di fecondazione che sono però una corsa ai ripari quando l’epidemia è già scoppiata. Ma non si parla di prevenzione. È un po’ come se si vo­lesse combattere la malaria distribuendo un po’ di chi­nino invece di bonificare le paludi. È un modo di agire che guarda solo a correggere alcune conseguenze inve­ce che le cause.
L’impressione è che si è più attenti a dare spazio ai co­siddetti «nuovi diritti riproduttivi» – molto di moda – piuttosto che a una seria lotta all’infertilità.
A
ddirittura l’eccesso nel decantare la Fiv può essere un ulteriore problema, inducendo a procrastinare la gravidanza, nell’illusione che «tanto la medicina può tutto»; tanto che la rivista
 Plos Onerecentemente pub­blicava uno studio tedesco in cui si mostrava che la po­polazione sottostimava il rischio che l’avanzare dell’età porta alla fertilità, e sovrastimava molto le possibilità di successo della fecondazione in vitro. Senza ricordare che anche la Fiv dopo una certa età – o in presenza di certi fattori inquinanti – ha basse possibilità. Forse tanto chiacchierare sul diritto alla Fiv è un’arma inconscia di distrazione di massa per non guardare in faccia il pro­gressivo ammalarsi di un mondo inquinato e invec­chiato, di cui la sterilità è solo un sintomo e ai cui ri­medi non vuole metter mano.

martedì 23 settembre 2014

Un Papà e Sua Figlia Down: una Video–Confessione che svela Paura, Amore e Vita


I sentimenti più veri di un padre davanti ad un evento sconvolgente

heat1Qualche tempo fa sul Daily Mail comparve un’intervista ad un pilota e agente dell’FBI.
L’articolo non trattava di alcuna missione segreta, tantomeno di come gli agenti dell’Intelligence americana venivano addestrati, ma semplicemente la confessione di un padre all’indomani della scoperta di un fatto molto personale.
L’articolo è molto attuale e descrive il sentimento di un papà davanti ad evento che non puoi controllare, come la nascita di un bambino.

Si chiama Heath White, ed ha raccontato con tutta la fragilità di un essere umano di come abbia accolto nella sua vita sua figlia, affetta dalla sindrome di Down.

“Paisley (la bimba ndr) è la luce nell’oscurità, l’ispirazione della mia vita e della mia famiglia” racconta Heat.
Ma non era questo il sentimento che dominava il suo cuore nel 2007, quando cioè scoprì che sua moglie Jennifer aspettava una bambina Down.
Lui, che ambiva alla perfezione, come lo dimostravano i suoi successi al college, e dopo nella sua carriera militare, pensava che questa bambina avrebbe rovinato la sua vita.
Il mio unico pensiero era cosa avrebbe detto di me la gente. Fu molto triste. Sapere di aspettare un bambino Down è un’esperienza simile alla morte, così mi sentivo. Come se avessi avuto un bambino “rotto””.
Heat addirittura tentò di convincere la moglie Jennifer ad abortire, ma fortunatamente le cose andarono diversamente.
Jennifer invece tentò di fargli sentire quel sentimento d’amore che lei provava, che lei voleva quella bimba con tutta sè stessa, che non sarebbe riuscita a vivere senza di lei.

heat2Paisley nacque il 16 marzo 2007, e le sue sorelle maggiori e la sua famiglia la accolsero con amore.

Ma mentre la piccola rideva nelle foto, Heat non riusciva a stabilire alcun legame con lei.
La nonna commentò che quasi non sembrava Down, ma lui sapeva che era una bugia.
E’ stato solo dopo qualche tempo che Heat realizzò che Paisley non era differente dagli altri bambini.
La svolta avvenne quella volta che Paisley cominciò a ridere al solletico del papà, tentando di spingerlo via: “Il suo sorriso, e le sue risate, il suo reagire a me, in quel momento capii che lei era come tutti gli altri bambini. Era la mia bambina” racconta.

Capì a quel punto che doveva dimostrare quanto lui fosse orgoglioso di lei.

Prima che Paisley nascesse Heat aveva partecipato a una serie di gare di corsa, e a un certo momento capì che avrebbe ricominciato. Questa volta però con lei.
Si dotò allora di uno speciale passeggino, e ricominciò a gareggiare nelle maratone. E a vincere.
“Eravamo solo io e lei, e nessun altro. Riguardando le foto mi ritornano in mente quei bei momenti” dice Heat al Daily Mail.
E quando la bimba compì 5 anni, le insegnò a correre da sola, non aveva nessun problema a farlo.
Insieme hanno corso oltre 300 miglia di maratone, il che, per un bimbo affetto da Sindrome di Down è un traguardo ragguardevole.
Heat decise, quando la piccola aveva circa 18 mesi, di scriverle una lettera, pubblicata poi sotto forma di video sul sito di Sport ESPN.
?????????????????????????Il video si intitola Perfect, e racconta il sentimento di un papà, e di come egli ami sua figlia al di sopra di ogni cosa.
Heat sa che questo potrebbe ferire la piccola Paisley in futuro, ma spera allo stesso tempo di dimostrarle il grande amore che lui prova per lei, e incoraggiare anche altri genitori che come lui si sentono preoccupati: non sono soli.
Nessuno sapeva come mi sentivo prima che Paisley nascesse, e se posso aiutare anche una sola persona a non fare l’errore che stavo per commettere anche io, varrà il dolore che posso provocare nella mia piccolo, perchè anche lei possa capire il dolore che io ho provato” continua Heat.


Fonte: sindromedidownpesaro.it


Le associazioni: «Eterologa, corsia veloce. E le adozioni al palo»


di  Alessia Guerrieri




Genitori di seconda categoria. Figli già scartati una volta che vengono messi in un angolo. Abbandonati di nuovo, stavolta dalle istituzioni. Alla ribalta, invece, continua ad esserci la logica del figlio a tutti i costi e a ogni prezzo, visto che il desiderio di maternità e paternità supera anche il diritto di quei bambini per cui l’adozione è l’unica chance di avere una famiglia. Perché tutta la fretta di regolamentare l’eterologa non c’è mai stata per l’adozione? Perché da anni «si aspettano i protocolli operativi regionali e la banca dati nazionale, mentre in 25 giorni le Regioni hanno già trovato l’accordo sulla fecondazione eterologa?».

È questo il grido amareggiato delle associazioni e degli enti accreditati
all’adozione in Italia; un accorato appello affinché governo e Regioni dedichino la stessa lena mostrata per la fecondazione assistita a districare le questioni aperte nell’adozione, così come pure a reperire i fondi per quella internazionale – fermi da tre anni – e per far funzionare adeguatamente la Commissione adozioni internazionali.
Il rischio, altrimenti, è di proseguire sulla strada della disparità tra famiglie. Nell’ultima riunione di luglio con gli enti accreditati, infatti, il neo presidente Cai, Silvia Dalla Monica, ha fatto intendere che non ci sono soldi.

Fondi per i rimborsi alle famiglie, che nelle adozioni internazionali arrivano a spendere anche 10mila euro e ora possono avere la deducibilità solo del 50%, ma anche fondi per i servizi post-adozione oggi praticamente inesistenti. Ecco che un impegno economico pubblico sulle adozioni e la loro gratuità appare, perciò, sempre più urgente. Unito anche a una nuova collaborazione dell’autorità centrale con gli enti accreditati e a un rinsaldamento dei rapporti diplomatici con i Paesi d’origine dei bambini. Per rendere più spedita l’adozione internazionale che adesso viaggia al ritmolumaca di 3-4 anni.
Il calo del numero di coppie che in Italia fanno richiesta d’adozione non è un mistero: se nel 2006 erano circa 6mila, nel 2013 ci si è fermati poco sotto i tremila.
«I dati sul primo semestre 2014 – dicono gli enti – mostrano un ulteriore crollo del 30%. Se continua così al 2020 non avremo più adozioni nel nostro Paese a fronte di migliaia di bimbi adottabili nel mondo». Ed è proprio per questo che occorre un cambio di rotta, per far tornare l’Italia ad essere la seconda nazione, dopo gli Stati Uniti, per numero di bambini accolti. In ballo, ammettono, c’è «la responsabilità che una società civile ha nei confronti di bambini abbandonati», italiani o stranieri che siano, per cercare di «rimediare all’ingiustizia che hanno già subìto». E non renderli orfani per la seconda volta.

Le associazioni
Ai.Bi.I diritti dei minori in secondo piano rispetto a quelli degli adulti. Il bambino dichiarato adottabile, infatti, ha una sola possibilità di diventare figlio, mentre i grandi ne hanno molte di diventare genitore. Quindi «se non s’investe sull’adozione, su un atto di giustizia insomma, togli a quei bimbi anche questa possibilità». Marco Griffini, presidente dell’Ai.bi (Amici dei bambini) sferza subito il ragionamento sui «bambini scartati due volte», quando sollecita un cambiamento culturale. Va superata la logica di guardare solo ai bisogni degli adulti, e non «a quel gesto d’amore che rende giustizia a un bambino che la società non è stata in grado d’aiutare». Per questo va superata anche il meccanismo della selezione «inteso come percorso oppressivo in cui la coppia viene torchiata», secondo il presidente, con un approccio basato «sulla cultura dell’accompagnamento dei coniugi», che vuol dire «io Stato faccio il tifo per te», perché stai andando a prendere un bimbo abbandonato e «tu sei la faccia della solidarietà italiana». Nell’adozione c’è ancora tanto da fare; ad esempio «manca una banca dati nazionale prevista per legge – ricorda Griffini – che ci consenta di velocizzare l’abbinamento del bambino con la coppia». Eppure ci sono 1.900 minori italiani adottabili che non riescono ad avere una famiglia. Invece «c’è una corsa a regolamentare l’eterologa», per il presidente Aibi, perché 5 milioni di coppie sterili e 60mila domande di fecondazione eterologa e omologa «a quanto pare contano di più». Dimenticandosi però di un atto generosità altissima, conclude, per focalizzarsi sull’eterologa che, «per come si sta delineando, è un atto di egoismo».

Anfaa.
La scelta di diventare genitore va accolta e accompagnata per bene, con percorsi d’approfondimento sull’essere genitore, soprattutto quando si sta per diventare madri e padri di un figlio non tuo. Mentre «gli enti e le associazioni cercano di seguire e far maturare questa consapevolezza nei futuri genitori adottivi – spiega la presidente dell’associazione famiglie adottive e affidatarie (Anfaa) Donata Nova Micucci – non vedo lo stesso dibattito sulla preparazione ferrea per le coppie che si avviano alla fecondazione eterologa». Anzi, c’è il vuoto assoluto sia sul livello di maturazione che sulla concezione di genitorialità che i coniugi hanno raggiunto. Sembra quasi che basti pagare un ticket per essere pronti ad accogliere un bambino non biologicamente tuo, «dimenticando – aggiunge – tutte le implicazioni psicologiche future che potrebbero esserci». Lo stesso vuoto assoluto c’è sia sull’adozione in generale, «quasi fosse una soluzione di serie b», sia in particolar modo sull’adozione di bambini con bisogni speciali. Le istituzioni perciò, secondo Nova Micucci, dovrebbero farsi carico di questi bimbi, «non lasciando sole le famiglie che scelgono di adottarli comunque», magari seguendo l’esempio del Piemonte che ha stanziato un contributo economico per figli adottati con bisogni speciali pari a quello che spetta per i minori in affidamento. «Se noi formiamo le coppie, le facciamo maturare - conclude la responsabile Anfaa - ma poi la società civile e lo Stato le abbandona, la macchina non funziona». Cambiare la legge? Non serve, basterebbe «farla applicare da nord a sud in ogni sua parte».

Ciai
I bambini in questo caso già ci sono. Sono bimbi che sulle spalle hanno spesso i segni di maltrattamenti e abusi. Sono piccoli che hanno bisogno di percorsi di sostegno dopo l’adozione, soprattutto durante alcuni momenti particolari della loro crescita, come l’adolescenza. Eppure i fondi sia per le famiglie che sostengono pesanti costi per l’adozione «sia per quelle che hanno adottato ragazzi difficili, e devono intraprendere con loro un cammino di crescita speciale, non ci sono». C’è tristezza mista a rabbia nelle parole di Paola Crestani, presidente del Centro Italiano Aiuti all’Infanzia (Ciai), quando tenta di capire perché per la fecondazione eterologa c’è tanta attenzione (e si trovino subito i soldi), mentre l’adozione è relegata ai margini del dibattito pubblico. Inoltre, senza alcun sostegno economico governativo. Senza rimborsi «non si possono aiutare le coppie», dice, invece si dovrebbe ragionare «su come andare incontro alle famiglie per ridurre i costi della pratica adottiva», anche attraverso la deducibilità totale, e su un sistema «magari tramite voucher, che consenta di dare maggiori servizi dopo l’adozione a neo genitori e bambini». Ma anche un nuovo sprint perché, continua Crestani, «ci siano meccanismi per controllare le pratiche all’estero, per preparare il bambino a venire in Italia». Certo questo non si modifica per legge, ma ci vuole «la volontà politica di farlo». Nessun braccio di ferro eterologa-adozioni, comunque, solo «vorremmo che ci fosse lo stesso impegno anche per l’adozione» continua la responsabile Ciai, perché in questo caso i bambini già ci sono, «hanno sofferto e meritano un po’ di serenità».

Uniti per l'adozione
Si chiede da anni – almeno dieci – la gratuità delle adozioni. Ma nessuno ha ascoltato. Si aspetta da anni – almeno quindici – che le Regioni predispongano i protocolli operativi per l’adozione previsti dalla riforma del 1998. Eppure «non tutte le Regioni li hanno ancora e quei territori che li avevano li hanno dimenticati. Invece per l’eterologa in poche settimane…». Pietro Ardizzi portavoce di Uniti per l’adozione, la neonata rappresentanza di 45 enti autorizzati, parla di «grave irresponsabile distrazione verso una forma alta di accoglienza come l’adozione» e «verso un mondo elettoralmente poco rilevante come i bambini», quando analizza il ghetto in cui viene relegato questo tema nell’agenda politica e istituzionale. «È drammatico e vergognoso poi – aggiunge – che l’autorità centrale non abbia finanziamenti adeguati e sufficienti perché questo si ripercuote su famiglie e servizi». Servirebbero circa 30 milioni per dare risorse economiche e umane al Cai ed evitare che tra qualche tempo tutto il sistema degli enti autorizzati salti, visto che molte sedi territoriali saranno costrette a chiudere. In più, i fondi servono anche per «rivedere i rapporti diplomatici con i Paesi d’origine – dice Ardizzi – perché altrimenti si ripercuote sulle lungaggini delle pratiche internazionali». Ma è soprattutto il metodo con cui si è affrontata sia la questione eterologa che la «distrazione» sull’adozione che brucia e «fa paura». Le scelte dei governi sono state fatte, ammette difatti, «senza il coinvolgimento di enti e associazioni, prendendo decisioni sulla pelle delle persone».

Fonte: avvenire.it

domenica 14 settembre 2014

20 settembre 2014, Vita è a Verona

vita è convegno

Il primo convegno nazionale della neonata associazione Vita è sarà il prossimo 20 settembre a Verona. Un occasione di dibattito e confronto intorno a vita, famiglia e educazione, per approfondire e capire.  L’appuntamento sarà anche l’occasione per alcune tavole rotonde a cui parteciperanno politici e  giornalisti.
Vita è: Si tratta di un nuovo soggetto che ha come fine quello di mettere insieme tante persone e realtà che si battono, in modi diversi, sia sul fronte dell’impegno caritativo che sul fronte culturale e giuridico, per la promozione e la difesa della vita e della famiglia.
Mai come oggi c’è bisogno di tornare a dire, forte, chiaro, nel modo più unitario possibile, che la vita è bella! Che la vita è un dono! Che la vita va promossa e difesa, sempre e comunque! Occorre dirlo in tutti i modi possibili. In famiglia, a scuola, nelle aule dei tribunali e dei parlamenti, nelle accademie e negli ospedali. Per riaffermare il senso della nostra esistenza terrena; per ridare valore alle parole e ai concetti che hanno fatto grande la nostra civiltà: verità, carità, persona, rispetto… Vita, allora, è famiglia; vita è comunità; vita è rispetto della persona umana; vita è riconoscimento della trascendenza; vita è una medicina che cura e non che uccide; vita è amore e rifiuto della cultura dello scarto, del nichilismo e del relativismo.
Di seguito il programma della giornata a Verona:
- ore 10:45 Vita è… partecipazione. Tavola rotonda sui temi della vita e della famiglia. Partecipano Mario Adinolfi (cofondatore Pd), Lorenzo Fontana (Lega Nord), Federico Iadicicco (FDI), Eugenia Roccella (NCD). Modera: Francesco Ognibene (Avvenire)
- ore 14:30 Vita è… paternità e maternità. Massimo Gandolfini (Presidente Vita è) – L’adozione
- ore 15 Vita è… responsabilità e amore. Renzo Puccetti (Vice Presidente Vita è) – L’Humane Vitae: un’enciclica profetica
- ore 15:30 Vita è… educazione. Gianfranco Amato (Presidente Giuristi per la Vita) – Il gender a scuola
- ore 16 Vita è… leggi che tutelano vita e famiglia – Simone Pillon (Forum Associazioni Familiari) e Carlo Amedeo Giovanardi (NCD) – I punti caldi oggi in Parlamento (eterologa, divorzio breve…)
- ore 16:30 Vita è…solidarietà. Emmanuele e Venere Di Leo (Steadfast Onlus) – Un’isola nigeriana: l’aiuto all’Africa nell’era di facebook e Boko Haram
- ore 17:45 Tavola rotonda conclusiva. Partecipano Toni Brandi (giornalista), Raffella Frullone (giornalista), Stefano Lorenzetto (giornalista), Luigi Amicone (direttore “Tempi”). Modera: Luca Volontè
Luogo:
Basilica di Santa Teresa del Bambin Gesù, Via Volturno 1, Verona (Sala Piccola via)
(uscita Verona sud, direzione Fiera, 3 semafori, al III a dx). E’ prevista presenza di alcune baby sitter

ps  il 20 verrà presentata Steadfast, che si occupa di Africa: 

La Nigeria è un paese dilaniato dagli attentati islamici contro le comunità cristiane; un paese sotto l’attacco delle ideologie antinataliste di provenienza occidentale e dell’Islam radicale. Conta 143 abitanti per km/q, contro i 16.689 del Principato di Monaco, i 6.356 di Hong Kong, i 478 di san Marino, i 337 del Giappone, i 248 del Regno Unito, i 231 della Germania…
Ebbene Emanuele Di Leo, presidente della Steadfast Foundation, che si occupa di aiuto allo sviluppo, nel suo recente viaggio in Nigeria, insieme alla moglie, si imbatte, tramite facebook, in una religiosa italiana, suor Enza, che vive, da sola, sull’isola di Igbedor, vicino al delta del Niger. Qui si adopera come può per assistere una popolazione di circa 8000 persone senza corrente, nella miseria e nell’ignoranza, che bevono l’acqua sporca del Niger, da cui è più facile contrarre malattie che vita…
Su 8000 abitanti, circa 5000 sono bambini! Perché così tanti bambini, non in assoluto, ma rispetto al numero degli adulti? Perché la poligamia, l’assenza di rispetto versa la figura femminile, porta alla nascita di tante creature di cui nessuno può prendersi cura. Suor Enza vive qui, per portare Cristo, e, con Lui, un altro modo di vedere la relazione tra uomo e donna e il dono della vita. E gli amici della Steadfast, dopo averla incontrata, hanno deciso di non abbandonarla: cercheranno di portare depuratori per l’acqua , generatori di corrente, scuola, sanità…

Fonte:libertaepersona.org

Vita è: primo convegno nazionale

convegno vita est

sabato 13 settembre 2014

Norlevo, la pillola "potrebbe" essere abortiva

di Gianfranco Amato 

13-09-2014 
Pillola
Il 29 maggio 2014 la Sezione Terza-quater del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, con l’ordinanza n. 2407/2014, ha respinto la richiesta di sospensione degli effetti del provvedimento dell’Aifa sul farmaco Norlevo, la cosiddetta “pillola del giorno dopo”, affermando che «non sussistono, sotto il profilo del fumus, i presupposti per l’accoglimento della proposta istanza cautelare avuto presente, in linea con quanto evidenziato dalle resistenti amministrazioni, che recenti studi hanno dimostrato che il farmaco Norlevo non è causa di interruzione della gravidanza». Questo era il giudizio tranchant e lapidario dei giudici amministrativi di primo grado.
I Giuristi per la Vita e l’associazione Pro Vita Onlus hanno deciso di impugnare quell’ordinanza avanti il Consiglio di Stato. Ieri, 11 settembre, a Palazzo Spada si è tenuta l’udienza di discussione. I giudici di secondo grado hanno emesso l’ordinanza n.4057/2014, dimostrando una maggior capacità riflessiva rispetto ai colleghi del TAR. Per comprenderlo basta leggere il seguente passo del provvedimento:
«Considerato che la questione coinvolge aspetti complessi anche sul piano tecnico, che non possono essere adeguatamente approfonditi in una fase cautelare e che in particolare devono necessariamente essere chiariti in sede di merito le seguenti questioni:
 - se l’affermazione contestata dalle appellanti (“Non può impedire l’impianto nell’utero di un ovulo fecondato”) nel foglio illustrativo per gli utenti sia coerente con i risultati degli studi sottostanti da riportare nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, strumenti di primaria rilevanza per l’informazione del medico;
- se il documento impugnato derivi da una modifica di autorizzazione all’immissione in commercio di un medicinale correttamente rilasciata secondo la procedura di reciproco riconoscimento che coinvolge le valutazioni di più autorità sanitarie nazionali in ambito comunitario;
 - se in tal caso sussistano le fondate ragioni di tutela della salute pubblica – richieste dalla direttiva CE 2001/83 (CE – per rifiutare quanto deciso a livello comunitario);
- se deve attribuirsi rilevanza al recente comunicato del 24 luglio dell’Agenzia europea dei medicinali secondo il quale i medicinali a base di“levonorgestrel” agiscono bloccando e/o ritardando l’ovulazione, senza fare alcun riferimento a effetti sull’impianto nell’utero dell’ovulo fecondato».
Nulla di scontato, quindi, sul piano scientifico, come pareva invece ai giudici di primo grado. Se è vero che il Consiglio di Stato ha respinto la richiesta di sospensiva del provvedimento poiché la complessità della vicenda non consente una decisione nella fase cautelare, è altrettanto vero che l’ordinanza di ieri, in realtà, riapre i giochi e rimette in discussioni le granitiche certezze scientifiche dei magistrati del TAR Lazio. L’Aifa non potrà più trincerarsi dietro l’apodittica affermazione secondo cui «il farmaco Norlevo non è causa di interruzione della gravidanza», assunto sbrigativamente fatto proprio dai giudici amministrativi romani. Almeno su questo punto il Consiglio di Stato pare inequivocabilmente chiaro.

Fonte: lanuovabq.it

giovedì 11 settembre 2014

Sla, il racconto di un padre: "I figli mi stanno donando una seconda vita"



Redattore Sociale del 09-09-2014

Sla, il racconto di un padre: "I figli mi stanno donando una seconda vita"

Per Riccardo, 39 anni, i primi sintomi 6 anni fa, poco dopo la nascita della prima figlia. Nel pieno della malattia, è diventato padre per la seconda volta. Oggi è paralizzato e non parla, ma "la semplicità dell'amore dei propri figli può abbattere qualsiasi barriera".

ROMA. Riccardo ha 39 anni, due figli piccoli e da 4 anni è “prigioniero del suo corpo”: la Sla ha mostrato i suoi primi segni 6 anni fa, poco dopo la nascita della prima figlia, “orgoglio indescrivibile”. Oggi, i suoi figli può accarezzarli solo con gli occhi: gli stessi occhi attraverso cui comunica con loro e con il mondo. Ma “la carica di essere padre e marito – assicura - supera la paurosa vita da affrontare e la semplicità dell’amore dei propri figli può abbattere qualsiasi barriera”.

Così, proprio in questi giorni, mentre la Sla urla la propria esistenza attraverso le mediatiche “docce gelate”, Riccardo rompe il suo silenzio per affidare al comunicatore oculare la sua testimonianza di malato “silenzioso” e raccontare, in poche righe, la vita reale di chi, quella “doccia gelata”, l’ha avuta davvero. Le sue parole sono raccolte da Anna Fusina per “Gli amici di Lazzaro”.

“Avevo solo 33 anni quando iniziarono i primi sintomi, ma mai nessuno avrebbe pensato a quale tragedia sarei andato incontro – racconta Riccardo - Io e mia moglie avevamo coronato la nostra unione dando la vita ad una bimba bellissima: un orgoglio indescrivibile. Nel frattempo i mesi passano e la malattia continua il suo corso, si passa da un ospedale all’altro, con la speranza che la diagnosi cambi! Nostra figlia intanto cresce velocemente, e lei, così piccina, mi dà così tanta carica di vita che a volte mi scordo addirittura della malattia”. Il tempo passa e la malattia compie il suo cammino, implacabile: “malgrado la vistosa decadenza del fisico, non demordo. Mia moglie rimane incinta del secondo figlio, da noi voluto, anche contro il parere dei medici, che ce lo sconsigliavano onde evitare ulteriori problemi”.

Riccardo diventa quindi papà per la seconda volta, mente la sua “disabilità grave avanza senza guardare in faccia nessuno”, ma “i mesi passano, i bimbi crescono, e io peggioro più velocemente di quello che si pensi. La Sla é riuscita ad annientarmi totalmente. Lei ti toglie tutto così, senza scrupoli, lasciandoti totalmente lucido da guardare cosa ti riesce a fare. In noi, malati di Sla, lo scorrere del tempo fa sì che il nostro corpo diventi un estraneo al nostro animo”. Il pensiero, però, “non si ferma mai – assicura Riccardo - e ritorna a quando da bambino correvo nei prati spensierato, pieno di energia e con tanta voglia di diventare grande, o al giorno in cui ho visto per la prima volta mia figlia e l’ho stretta tra le mie braccia o a quel figlio che solo con una mano avevo potuto accarezzare, perché la Sla non mi permetteva altro. Niente vacanze al mare, nessuna corsa in bicicletta, nessun bacio e carezza posso più dare ai miei figli… Nessun semplice gesto mi è più concesso, nemmeno di piangere per poi asciugarmi le lacrime, perché sono gli altri che devono asciugarle a me!”.

E’ una condizione drammatica, che “porta più della metà dei malati a scegliere di non vivere”, riferisce Riccardo, che oggi muove solo gli occhi, respira grazie a un ventilatore meccanico e mangia tramite un sondino. “Questa é la Sla – osserva Riccardo - una malattia senza cura, ma che io ho scelto di combattere, perché la carica di essere padre e marito supera la paurosa vita da affrontare e la semplicità dell’amore dei propri figli può abbattere qualsiasi barriera. Loro mi stanno facendo vivere la mia seconda vita attraverso la loro semplicità di amare. Ringrazio mia moglie e i miei figli per avere dato la vita a un papà prigioniero del suo corpo”. (cl)

Fonte: agenzia.redattoresociale.it
 

No ovuli, no party: congelatori in vendita in America

Dilagano negli Stati Uniti le campagne per convincere le donne a pianificare, a tutti i “costi”, la maternità

 



Il business della ricostruzione dell’orologio biologico è lì, dietro l’angolo. La scienza permette, lo sappiamo, di congelare gli ovuli della donna e di utilizzarli in seguito. O meglio, provare ad utilizzarli, dato che il numero di donne che rimane incinta grazie a questa tecnica è inferiore al 10%, come ha dichiarato Lord Robert Winston, il “mago” della fecondazione assistita. Ciò nonostante, la EggBanxx usa toni promettenti nelle campagne promozionali dei suoi grandi eventi, i cosiddetti “Congelamento degli ovuli party” – il prossimo “Let’s Chill” (“Congeliamoli”) sarà a New York – nel chiedere alle donne 8.000 dollari per l’intervento, più 1.000 all’anno per l’affitto del congelatore, in cambio di una presunta possibilità di pianificazione di tempi, carriera e rapporti con gli uomini in relazione alle proprie voglie di maternità. Ancora una volta da un reparto marketing, in questo caso quello della EggBanxxx, giunge l’incoraggiamento pressante ad assumere nuovi modelli antropologici. Parla ad Aleteia dei rischi di tutto questo la professoressa Paola Ricci Sindoni, docente di Filosofia Morale all’Università di Messina e direttore nazionale dei Quaderni di “Scienza & Vita”.

Che ne pensa di questa proposta?

Ricci Sindoni: La cosa più semplice sarebbe fare valutazioni etiche su questa nuova e un po’ bizzarra modalità di presentare la maternità come un bazar, un grande magazzino dove puoi al tempo opportuno trovare un figlio. Io vorrei fare un discorso che va a monte e che riguarda il fatto che si va sempre più diffondendo l’idea che l’unica forma valida di argomentazione razionale sia quella della tecno-scienza, che non viene mai messa in dubbio dalle persone, le quali sempre meno si fermano a pensare se le possibilità di successo siano alte o basse, se vale la pena spendere tanti soldi per un’impresa di questa genere. Si ragiona così: è possibile fare questa cosa tecnicamente? Sì, e allora la si fa. Questo passaggio immediato non tiene conto che l’argomentazione delle tecno-scienze dovrebbe essere accompagnata da altri tipi di argomentazioni, ad esempio di tipo giuridico, sociale, religioso, valoriale. Tutti questi punti di vista partecipano di una visione più globale. Il fatto che continuiamo anche noi, gente comune, a dare sempre per buono come un dogma l’accettazione di quello che fa la scienza, indica che siamo ormai a una svolta epocale. In realtà non tutto quello che si può fare tecnicamente lo si deve fare, perché la tecnica è uno strumento, ma non si lascia coinvolgere dal fine. Per evitare i paradossi impliciti in proposte come questa che arriva dagli Stati Uniti bisognerebbe decostruire l’idea che la tecno-scienza sia l’unica via per ragionare, per conoscere, per valutare. Da sola, la tecno-scienza ti porta al marketing e all’aspetto economico: queste donne spendono tanti soldi – e si parla infatti di truffa – per avere percentuali molto basse di successo.

C’è un corto circuito tra valori universali come la maternità e tendenze culturali ed economiche che invece sono nazionali?

Ricci Sindoni: Anche in America si dovrebbe imporre un modello culturale più comprensivo, su questa cosa come su molte altre. Perché è vero che la tecno-scienza ci può portare domani ad avere – perché tecnicamente si può fare – un utero artificiale per l’uomo in maniera tale che possa anche lui avere nove mesi di gravidanza e partorire. Però, mi chiedo, si deve fare? Questo è il punto. C’è un limite oltre al quale non dico si debba dire moralisticamente basta, ma occorre far intervenire altre argomentazioni. Questo non si fa, e ci troviamo in una corsa al massacro dove vince questo modello dogmatico della tecno-scienza. Bisognerebbe correre ai ripari e creare un sentire comune di fronte al dogma della scienza, che c’è anche da noi. Non bisogna tanto parlare di modelli culturali diversi: certo, noi abbiamo una cultura umanistica più radicata e lì certi modelli sono più galoppanti, ma bisogna parlare di limiti della scienza. Se non si pongono paletti si potrà fare qualunque cosa: trapiantare il cervello di un maiale in un bambino perché malato. Si dirà: in fondo è malato, perché non lo si può fare?

Il problema è l’alleanza tra economia e scienza, che ha dominato il XX secolo?


Ricci Sindoni: Assolutamente sì. E questa alleanza andrebbe sciolta, perché porta a una corsa contro l’umanizzazione dell’uomo: noi infatti abbiamo una donna che diventa una macchina, un computer, che si programma, che deposita un ovulo, poi lo va a ritirare dopo dieci mesi. Così si perde di vista l’idea stessa di maternità. Io non credo si debba imporre un modello antico di maternità: la cultura evolve, perché evolvono i sistemi giuridici, quelli religiosi, quelli valoriali. Ma tutte queste cose andrebbero viste insieme altrimenti si giunge a disumanizzare l’uomo; così la tecno-scienza prende il sopravvento sull’uomo stesso, l’uomo perde il controllo su sé stesso, costruisce la bomba atomica e si uccide. Occorre costruire modelli culturali diversi, non dico confessionali o morali, ma anche razionali, che siano il più possibile ampi perché siamo in una realtà complessa.

Lei vede le donne particolarmente vulnerabili di fronte a questi nuovi modelli?

Ricci Sindoni: Io penso che - ahimè - il modello femminista è ormai molto e sepolto perché quel modello femminista degli anni Ottanta e Novanta non ha più ragione d’essere. Per questo si impone un modello femminista di autonomia anche nei confronti dell’idea della relazione, dell’immaginare un progetto di genitorialità nei confronti del figlio, del legame con un uomo con cui avere un figlio. E a mio avviso questo è quello che fa dire ad una Angelina Jolie che poiché è una grande seccatura aspettare secondo i ritmi naturali l’arrivo di un figlio è molto meglio sottoporsi alla fecondazione assistita. Questo significa che non vuoi più avere un figlio con quell’uomo, ma preferisci che la scienza prenda il tuo posto nel tuo rapporto con lui. Più che una fragilità questo testimonia una volontà di potenza della donna che vuole un figlio, poi se l’uomo c’è o non c’è che importa, ci penserà la scienza.

In Italia questo modello femminile è in espansione?

Ricci Sindoni: No, direi che questo tipo di proposta sembra ancora – detta in termini un po’ banali – un’americanata. Però se il trend a cui accennavo prima continua tutto è possibile. Ci scandalizzavamo dell’utero in affitto, ma se l’adozione verrà concessa anche alle coppie gay si affermerà anche l’idea dell’utero in affitto. L’eterologa che non era voluta – anni fa abbiamo fatto un referendum – è arrivata. Quindi, magari con qualche resistenza in più, arriverà anche questa se non ci si muove a livello culturale. Di fronte ad una trasformazione epocale come questa occorre decostruire proprio il potere della tecno-scienza. Se questo non succede ne vedremo altre, e tra qualche anno non mi sorprenderebbe che anche in un hotel di Roma si arrivasse ad organizzare un evento del genere.   

Partorire con l'arte, l'arte di partorire

Al via un originale ciclo di dibattiti sulla maternità promosso dal MAXXI di Roma

Roma, (Zenit.org) Maria Gabriella Filippi 

Collegare il museo alla sala parto, perché il museo, che è fucina dell’arte e del pensiero, è un luogo molto simile a quello in cui viene alla luce la più grande opera d’arte, la vita di un nuovo essere umano.
Questo è il connubio perfetto formulato da Antonio Martino, ginecologo del Fatebenefratelli di Roma e collezionista e cultore di arte contemporanea, il quale grazie alla collaborazione con la psicologa dell’arte Miriam Mirolla, docente presso l’Accademia delle Belle Arti di Roma, ha ideato la realizzazione del progetto intitolato Partorire con l’arte ovvero l’arte di partorire.
L’iniziativa che ha preso il via venerdì 5 settembre, si svolgerà in altri cinque incontri a cadenza settimanale: uno per ogni fase della gravidanza, dal concepimento fino al parto.
Il primo appuntamento svoltosi venerdì scorso presso il museo MAXXI di Roma è stato dedicato all’“annunciazione della gravidanza” e al suo primo trimestre. La visione di sculture, opere di street art, video e audio installazioni si è intrecciata ai contributi di medici, artisti e storici dell’arte: sono intervenuti la biologa Irene Martini, l’artista Donato Piccolo, la genetista Maria Lisa Dentici e l’ostetrica e poetessa Silvia Battistini.
Da Giotto alla Madonna del parto di Monterchi, affresco di Piero della Francesca e opera ispiratrice di questo progetto, a Beato Angelico e ai fiamminghi, per giungere alla ‘Gravida’ di Aurelio Bulzatti e ad altri contemporanei come Luigi Ontani, sono tante le opere d’arte incentrate sul tema dell’annunciazione di una gravidanza; le loro radici sono rintracciabili in testimonianze letterarie sublimi - la prima di tradizione romana pagana, è la narrazione di Apuleio del mito di Amore e Psiche; per non parlare dell’insuperabile racconto dei Vangeli, con l’apparizione dell’angelo a Maria, segno indelebile per l’intera cultura occidentale.
“La sala travaglio è il mio pane quotidiano”, ha spiegato Martino durante l’incontro. Innamoratosi dell’arte contemporanea 25 anni fa, il medico ha avuto l’idea di condividere la sua passione e le sue conoscenze con le partorienti, le neo mamme e i papà, con l’obiettivo di allentare l’eccessiva medicalizzazione della gravidanza e di restituire lo stupore e la serenità nel vivere la bellezza di questo evento irripetibile.
In un periodo storico in cui viene penalizzata la maternità, la coppia e la famiglia, in cui la gravidanza sembra essere vissuta come un’attesa a cui di dolce è rimasto ben poco e che assomiglia sempre più ad una condizione patologica, questo percorso vuole avere la funzione di abbassare il livello dell’ansia e della tensione, fino a contribuire alla prevenzione della depressione post parto.
“Come ginecologo – ha raccontato Martino - ho fatto nascere almeno cinquemila bambini e con tutto questo vissuto in prima persona, difficile e pieno di responsabilità ma meraviglioso, mi sono reso conto che a questa esperienza straordinaria mancava quella dimensione filosofica e artistica che fosse in grado di far apprezzare ancora con più forza e coscienza, alle donne e alle loro famiglie, l’esperienza della gravidanza”.
“In fondo - ha concluso il ginecologo - pure noi ginecologi siamo degli artisti, perché in alcuni casi le decisioni da prendere, pure quelle difficili” ma “mai andando contro i protocolli, nascono sicuramente da sensibilità, capacità ed intuito personali”.

 

giovedì 4 settembre 2014

Eterologa, ma chi tutela il bambino?

 04/09/2014  Le linee guida approvate giovedì dalla Conferenza delle Regioni non solo non tutelano il nascituro, la parte più debole di una partita dove gli interessi economici sono altissimi, ma rischiano di rivelarsi un favore ai centri privati che potranno partire sostanzialmente senza regole

di  Antonio Sanfrancesco

Lungi dal fugare ogni dubbio sull’eventualità che si scateni un vero e proprio business, leggendo il documento che contiene le linee guida sulla fecondazione eterologa – approvate giovedì mattina all’unanimità dalla Conferenza delle Regioni – si aprono in realtà nuovi,preoccupanti interrogativi che dimostrano, ancora una volta, come la via maestra per regolare questa materia delicatissima, dopo la sciagurata sentenza della Corte Costituzionale dello scorso aprile che ha ribaltato la legge 40, è quella di una legge discussa e votata dal Parlamento, come ha più volte sostenuto anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin.
Temi cruciali come questi non possono essere lasciati alla decisione di tecnici e assessori alla Sanità o a un accordo, giuridicamente fragilissimo, tra i presidenti delle Regioni. L’accelerazione di queste ore impressa dalle stesse Regioni non tiene conto dell’interesse esclusivo del nascituro, la parte più debole di una partita dove gli interessi, a cominciare da quelli economici, sono tanti e ben veicolati dalle varie lobby che vogliono meno regole possibili e fare tutto in fretta.


I rischi per la salute per chi "dona" i gameti e la possibilità del business

Spulciando il documento, dicevamo, le perplessità aumentano. Quando si parla delle donatrici di gameti femminili, ad esempio, si premette che: «La donazione degli ovociti richiede stimolazione ovarica con monitoraggio e recupero degli ovociti. Comporta quindi, a differenza della donazione di gameti maschili, considerevoli disagio e rischi per la donatrice». Poi ecco il consiglio: «È fortemente raccomandato per la donatrice degli ovociti e per il suo partner (se esistente) una valutazione e consulenza psicologica fornita da un professionista». Tutte le donatrici di ovociti, precisa ancora il documento, «devono essere informate esplicitamente dei rischi e degli effetti collaterali annessi alla stimolazione ovarica e recupero degli ovociti; questa consulenza deve essere documentata nel consenso medico informato». Poi si sottolinea che la donazione è un «atto volontario, altruista, gratuito» e che «non potrà esistere una retribuzione economica» anche se «non si escludono forme di incentivazione». Di che tipo non si sa.

Domanda: perché una donna dovrebbe sottoporsi gratuitamente (o una qualche “incentivazione”) ad una pratica così invasiva e rischiosa per il proprio corpo qual è quella della stimolazione ovarica? Non c’è il rischio che dietro la presunta gratuità o il paravento del rimborso spese nasca e si sviluppi un vero e proprio mercato e magari lo sfruttamento di donne costrette alla “donazione” dalla propria povertà?

E sul piano psicologico che conseguenze avrebbe, all’interno della relazione di coppia, l’eventuale decisione di uno dei due partner di donare i propri gameti per il solo «“bene della salute riproduttiva” di un’altra coppia», come recita il documento?

Il rebus dei costi

 
Poi una certa mentalità eugenetica fa capolino allorché si legge che «Non esiste un metodo per garantire in maniera assoluta che nessun agente infettivo possa essere  trasmesso attraverso la donazione di ovociti. Comunque le seguenti linee guida, combinate con un adeguata anamnesi e l’esclusione di soggetti ad alto rischio per HIV e altre malattie sessualmente trasmissibili, possono significativamente ridurre tali rischi». Segue un lungo elenco di esami a cui l’aspirante donatrice dovrà sottoporsi per poter essere ammessa a donare.

Un altro aspetto poco chiaro sono i costi a carico del Servizio sanitario nazionale.
Sarà gratuito per le donne che non superano i 43 anni di età mentre tutte le altre, se vorranno iniziare la pratica, dovranno mettere mano al portafogli. Domanda: ma se, come dice la Consulta, avere un figlio è un diritto «incoercibile» perché lo Stato non dovrebbe impegnarsi a garantirlo, al minor costo possibile con il pagamento del ticket o addirittura gratis, a tutti?

E siccome una procedura di fecondazione eterologa ha costi enormi, che vanno dalle indagini di screening per la selezione dei donatori al test del seme, dall'eventuale rimborso per le giornate di lavoro perdute dei donatori al costo dei farmaci per l'induzione all'ovulazione, il Servizio sanitario nazionale è in grado di sostenere, in tutto o in parte, tutti questi costi?

Conoscere il donatore è un diritto del bambino nato da eterologa

Poi c’è la questione della possibilità del nato di chiedere, dopo i 25 anni di età, di conoscere l’identità del donatore se questi è d’accordo. L’accordo raggiunto dalle regioni non affronta questo problema, forse perché si è consapevoli della difficoltà di farlo e del fatto che, ancora una volta, tocca a una legge normare questo aspetto.

È evidente che, se si vogliono tutelare i figli dell’eterologa, occorre fare una legge che riconosca loro il diritto di conoscere le proprie origini genetiche sia per un motivo psicologico che per un motivo strettamente medico. Solo conoscendo i propri genitori genetici, infatti, il bambino potrà conoscere le patologie o i rischi di contagio di alcune patologie genetiche.

Senza dimenticare che, come dimostrato da diversi studi psicologici, i bambini nati da eterologa, esattamente come quelli adottati, una volta divenuti adulti hanno il desiderio fortissimo di risalire alle loro origini e conoscere chi li ha generati.   Ecco perché l’accordo nella Conferenza delle regioni non basta e senza un tempestivo intervento del Parlamento rischia di rivelarsi un grosso assist ai centri privati che in questo modo potranno partire in una situazione di sostanziale deregulation. A farne le spese, come sempre, è soggetto debole, cioè il figlio. 

Fonte: famigliacristiana.it

 

 

Uteri in affitto - Le regole per affittare una madre

​E’ sorprendente che qualcuno si sorprenda. Stiamo parlando della vicenda del piccolo Gammy, oramai nota in tutto il mondo e che Avvenire ha seguito sin dall’inizio: una coppia benestante australiana paga una donna thailandese per una gravidanza surrogata, e quando nascono due gemelli, la coppia prende con sé la bambina sana e lascia alla donna il fratellino Down, che lei non aveva voluto abortire.

La generale reazione commossa e indignata è certo segno di un qualche residuo di pietà che ancora alberga in un mondo umanamente desertificato, ma al tempo stesso è la dimostrazione lampante di quanto non si sia capito, o non si voglia capire, circa il mercato della riproduzione umana che detta le sue leggi in nome dei cosiddetti "nuovi diritti": un’espressione molto politically correct, che nei fatti si traduce in forme contrattuali di maternità.

Il piccolo Gammy è nato in violazione di un contratto di maternità conto terzi. Non si conoscono i dettagli dell’accordo che lo riguarda, ma sappiamo bene che l’utero in affitto è una pratica basata su contratti molto precisi che definiscono in modo rigoroso i doveri delle donne che si impegnano a portare avanti una gravidanza a pagamento. In rete si trovano facilmente i modelli utilizzati in alcuni Paesi occidentali come Canada e Gran Bretagna, o in Stati Usa come la California. Per i Paesi terzi, invece, li conosciamo per lo più dalle ong che si occupano dei diritti (mancati) delle donne, le quali spesso acconsentono a testi che non sono in grado neppure di leggere.

Ci sono differenti modalità di gravidanze a pagamento: una è quella "tradizionale", quando la donna che partorisce è la stessa che fornisce anche l’ovocita, e quindi condivide con il nascituro il patrimonio genetico. L’altra è "gestazionale", se invece il bambino che nascerà è stato concepito con un ovocita che non appartiene alla donna che porta avanti la gravidanza e proviene dalla "madre intenzionale", cioè quella che ha commissionato la gravidanza, o da una "donatrice" terza, sconosciuta.

Il contratto è stipulato in forma diversa a seconda di chi contribuisce geneticamente e biologicamente al concepimento: una "donatrice" non è mai considerata, mentre l’eventuale marito della madre surrogata viene sempre incluso nell’accordo.

I contratti regolano gli obblighi della madre surrogata, un vero e proprio incubatore umano a cui vengono pagate tutte le spese mediche e correlate alla gravidanza, compresi i compensi più o meno espliciti, solo se si attiene strettamente ai comportamenti specificati nel testo sottoscritto.

Solitamente il padre genetico, o la coppia committente, obbligano la gestante a seguire le disposizioni di un medico di fiducia indicato dalla coppia stessa, e spesso è specificato che, nel caso in cui sia urgente una decisione medica durante la gravidanza e non sia stato possibile contattare la coppia, l’ultima parola spetta al medico di fiducia, e non alla madre surrogata.

La donna che affitta il proprio utero deve sottoporsi a tutti gli esami clinici proposti dal medico designato, e si specifica sempre che fra questi c’è l’amniocentesi e ogni altro esame ritenuto opportuno per verificare lo stato di salute del nascituro.

Nel caso di malformazioni e handicap del feto, la decisione di abortire spetta solamente alla coppia committente, o solo al padre genetico se la surrogata ha fornito il proprio ovocita. Se la madre surrogata si rifiuta, il contratto è violato e non ci sono più obblighi reciproci, se non quello della gestante di restituire le somme già ricevute per portare avanti la gravidanza fino a quel punto.

Lo stesso accade nel caso di gravidanze plurigemellari; nei contratti è sempre previsto l’aborto selettivo, per evitare che nasca un numero di bambini superiore a quello pattuito, e solitamente valgono le stesse condizioni dell’aborto di feti malformati: se la donna incinta si rifiuta il contratto è nullo.

A volte si disciplina nel dettaglio cosa accade se invece la malformazione è scoperta troppo tardi, quando non è più possibile abortire, o addirittura alla nascita. In questi casi la coppia committente si impegna a pagare tutte le spese finché il neonato non è dato in adozione, il che, concretamente, spesso equivale al suo abbandono in strutture apposite. Se però si stabilisce che l’handicap del bambino è stato causato da comportamenti inadeguati della madre surrogata, sarà questa a doversene assumere la responsabilità, oltre a restituire tutti i soldi ricevuti in gravidanza.

I contratti, infatti, prevedono oltre all’obbligo degli esami clinici, rigorosi stili di vita: niente fumo, anche passivo, niente alcol, niente droghe o farmaci al di fuori della prescrizione medica, ma anche divieto di mettere su chili di troppo rispetto al peso considerato opportuno dal medico, divieto di bere più di una tazza di caffè al giorno, divieto di trasportare o cambiare la lettiera del gatto, divieto di fare uso di dolcificanti, divieto di stare in prossimità di qualunque sostanza spray, dalla lacca per capelli ai pesticidi, e via dicendo.

È chiaro che, in caso di nato malformato, non è difficile trovare un pretesto per darne la responsabilità alla madre surrogata. Alcuni contratti poi prevedono espressamente che, se al momento della nascita il bambino ha bisogno di supporti vitali o di essere rianimato, la decisione in merito è solo del padre genetico (o della coppia committente) e non della donna che lo ha partorito. Se questa non concorda, e interviene diversamente per cercare di sostenere la vita del neonato, il contratto si considera interrotto e sarà lei ad assumersi da quel momento in poi la responsabilità del piccolo sotto tutti i punti di vista, a partire da quello economico, ovviamente.
Non mancano aspetti surreali, che farebbero sorridere se non fossero parte di un dramma. Come le forme contrattuali proposte da una onlus inglese che si occupa di pratiche di surroga, la quale propone questionari specifici per madri surrogate e coppie committenti, diversi se la coppia è etero o omosessuale. La coppia committente deve dichiarare se è disposta a entrare in contatto con una madre surrogata che sia al momento o sia stata in passato una fumatrice o una consumatrice di alcol, che sia obesa, o che abbia forti convinzioni religiose: in quest’ultimo caso, infatti, potrebbe essere «prevenuta dall’accettare certe procedure mediche come l’interruzione di gravidanza o le trasfusioni». Fumo, alcol e fede religiosa, insomma, possono essere nocive per la salute.

Il piccolo Gammy è nato perché la donna che lo portava in grembo a pagamento ha rinunciato ad abortire e ha avuto il coraggio e la possibilità di far conoscere la sua storia. Non sapremo mai quanti come lui sono stati abortiti per contratto, così come non sapremo mai quanti Gammy mancano all’appello perché abortiti nel ricco mondo occidentale, senza alcun bisogno di obblighi contrattuali: la chiamano libertà di scelta, ma non è poi una storia così diversa da quella che ci è arrivata dalla Thailandia. È sorprendente che qualcuno ancora si sorprenda.
 
Fonte: avvenire.it