giovedì 4 settembre 2014

Uteri in affitto - Le regole per affittare una madre

​E’ sorprendente che qualcuno si sorprenda. Stiamo parlando della vicenda del piccolo Gammy, oramai nota in tutto il mondo e che Avvenire ha seguito sin dall’inizio: una coppia benestante australiana paga una donna thailandese per una gravidanza surrogata, e quando nascono due gemelli, la coppia prende con sé la bambina sana e lascia alla donna il fratellino Down, che lei non aveva voluto abortire.

La generale reazione commossa e indignata è certo segno di un qualche residuo di pietà che ancora alberga in un mondo umanamente desertificato, ma al tempo stesso è la dimostrazione lampante di quanto non si sia capito, o non si voglia capire, circa il mercato della riproduzione umana che detta le sue leggi in nome dei cosiddetti "nuovi diritti": un’espressione molto politically correct, che nei fatti si traduce in forme contrattuali di maternità.

Il piccolo Gammy è nato in violazione di un contratto di maternità conto terzi. Non si conoscono i dettagli dell’accordo che lo riguarda, ma sappiamo bene che l’utero in affitto è una pratica basata su contratti molto precisi che definiscono in modo rigoroso i doveri delle donne che si impegnano a portare avanti una gravidanza a pagamento. In rete si trovano facilmente i modelli utilizzati in alcuni Paesi occidentali come Canada e Gran Bretagna, o in Stati Usa come la California. Per i Paesi terzi, invece, li conosciamo per lo più dalle ong che si occupano dei diritti (mancati) delle donne, le quali spesso acconsentono a testi che non sono in grado neppure di leggere.

Ci sono differenti modalità di gravidanze a pagamento: una è quella "tradizionale", quando la donna che partorisce è la stessa che fornisce anche l’ovocita, e quindi condivide con il nascituro il patrimonio genetico. L’altra è "gestazionale", se invece il bambino che nascerà è stato concepito con un ovocita che non appartiene alla donna che porta avanti la gravidanza e proviene dalla "madre intenzionale", cioè quella che ha commissionato la gravidanza, o da una "donatrice" terza, sconosciuta.

Il contratto è stipulato in forma diversa a seconda di chi contribuisce geneticamente e biologicamente al concepimento: una "donatrice" non è mai considerata, mentre l’eventuale marito della madre surrogata viene sempre incluso nell’accordo.

I contratti regolano gli obblighi della madre surrogata, un vero e proprio incubatore umano a cui vengono pagate tutte le spese mediche e correlate alla gravidanza, compresi i compensi più o meno espliciti, solo se si attiene strettamente ai comportamenti specificati nel testo sottoscritto.

Solitamente il padre genetico, o la coppia committente, obbligano la gestante a seguire le disposizioni di un medico di fiducia indicato dalla coppia stessa, e spesso è specificato che, nel caso in cui sia urgente una decisione medica durante la gravidanza e non sia stato possibile contattare la coppia, l’ultima parola spetta al medico di fiducia, e non alla madre surrogata.

La donna che affitta il proprio utero deve sottoporsi a tutti gli esami clinici proposti dal medico designato, e si specifica sempre che fra questi c’è l’amniocentesi e ogni altro esame ritenuto opportuno per verificare lo stato di salute del nascituro.

Nel caso di malformazioni e handicap del feto, la decisione di abortire spetta solamente alla coppia committente, o solo al padre genetico se la surrogata ha fornito il proprio ovocita. Se la madre surrogata si rifiuta, il contratto è violato e non ci sono più obblighi reciproci, se non quello della gestante di restituire le somme già ricevute per portare avanti la gravidanza fino a quel punto.

Lo stesso accade nel caso di gravidanze plurigemellari; nei contratti è sempre previsto l’aborto selettivo, per evitare che nasca un numero di bambini superiore a quello pattuito, e solitamente valgono le stesse condizioni dell’aborto di feti malformati: se la donna incinta si rifiuta il contratto è nullo.

A volte si disciplina nel dettaglio cosa accade se invece la malformazione è scoperta troppo tardi, quando non è più possibile abortire, o addirittura alla nascita. In questi casi la coppia committente si impegna a pagare tutte le spese finché il neonato non è dato in adozione, il che, concretamente, spesso equivale al suo abbandono in strutture apposite. Se però si stabilisce che l’handicap del bambino è stato causato da comportamenti inadeguati della madre surrogata, sarà questa a doversene assumere la responsabilità, oltre a restituire tutti i soldi ricevuti in gravidanza.

I contratti, infatti, prevedono oltre all’obbligo degli esami clinici, rigorosi stili di vita: niente fumo, anche passivo, niente alcol, niente droghe o farmaci al di fuori della prescrizione medica, ma anche divieto di mettere su chili di troppo rispetto al peso considerato opportuno dal medico, divieto di bere più di una tazza di caffè al giorno, divieto di trasportare o cambiare la lettiera del gatto, divieto di fare uso di dolcificanti, divieto di stare in prossimità di qualunque sostanza spray, dalla lacca per capelli ai pesticidi, e via dicendo.

È chiaro che, in caso di nato malformato, non è difficile trovare un pretesto per darne la responsabilità alla madre surrogata. Alcuni contratti poi prevedono espressamente che, se al momento della nascita il bambino ha bisogno di supporti vitali o di essere rianimato, la decisione in merito è solo del padre genetico (o della coppia committente) e non della donna che lo ha partorito. Se questa non concorda, e interviene diversamente per cercare di sostenere la vita del neonato, il contratto si considera interrotto e sarà lei ad assumersi da quel momento in poi la responsabilità del piccolo sotto tutti i punti di vista, a partire da quello economico, ovviamente.
Non mancano aspetti surreali, che farebbero sorridere se non fossero parte di un dramma. Come le forme contrattuali proposte da una onlus inglese che si occupa di pratiche di surroga, la quale propone questionari specifici per madri surrogate e coppie committenti, diversi se la coppia è etero o omosessuale. La coppia committente deve dichiarare se è disposta a entrare in contatto con una madre surrogata che sia al momento o sia stata in passato una fumatrice o una consumatrice di alcol, che sia obesa, o che abbia forti convinzioni religiose: in quest’ultimo caso, infatti, potrebbe essere «prevenuta dall’accettare certe procedure mediche come l’interruzione di gravidanza o le trasfusioni». Fumo, alcol e fede religiosa, insomma, possono essere nocive per la salute.

Il piccolo Gammy è nato perché la donna che lo portava in grembo a pagamento ha rinunciato ad abortire e ha avuto il coraggio e la possibilità di far conoscere la sua storia. Non sapremo mai quanti come lui sono stati abortiti per contratto, così come non sapremo mai quanti Gammy mancano all’appello perché abortiti nel ricco mondo occidentale, senza alcun bisogno di obblighi contrattuali: la chiamano libertà di scelta, ma non è poi una storia così diversa da quella che ci è arrivata dalla Thailandia. È sorprendente che qualcuno ancora si sorprenda.
 
Fonte: avvenire.it
 
 

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