venerdì 30 agosto 2013

ANTIABORTISTI IN OSPEDALE: DE POLI (UDC), POLEMICHE INUTILI, SOSTENERE LA VITA NON E' UN REATO

"Mi sembra di assistere alle solite polemiche ideologiche inutili. Sostenere la vita non è un reato". Con queste parole il senatore padovano Udc Antonio De Poli si schiera a favore del Movimento per la vita che è sotto accusa dopo l'autorizzazione da parte dell'Usl 16 a entrare nel Polo ospedaliero di Piove di Sacco (Padova). "Stiamo parlando di un servizio di accoglienza e ascolto, sostegno morale e psicologico - spiega De Poli -. Che senso ha questa crociata contro chi vuole promuovere la vita? Nessuno vuole fare il lavaggio del cervello a nessuno. Le donne che arrivano in ospedale per abortire vanno aiutate perché vivono un dramma. La vita deve essere promossa e tutelata con tutti gli sforzi possibili. Pensare di fare la guerra a chi difende la vita è non solo paradossale ma frutto dei soliti schemi ideologici. Si può essere pro o contro l'aborto, ma fare la guerra a un'associazione è pretestuoso. Si possono mettere in discussione semmai - chiarisce De Poli - le modalità di intervento dei volontari, ma la loro presenza in Ospedale è senz'altro positiva". "Mi congratulo con il Direttore generale dell'Usl 16 Brazzale - conclude -. E' un'iniziativa positiva, mi auguro che venga presa ad esempio per altre strutture pubbliche sanitarie in Veneto".
24/08/2013

Fonte: antoniodepoli.it

Aborto: la strage silenziosa

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aborto"Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai." (Isaia 49, 15)

Non mi piace quando viene cambiato il nome delle cose, la persona rivoluzionaria invece è colei che chiama le cose con il nome che hanno; non interruzione volontaria di gravidanza bensì aborto! La gravidanza non si interrompe, il bambino non è una malattia, un cancro da debellare! I bambini vittime di questa macchina assassina, che è la nostra società, hanno oltrepassato il miliardo, solo in Cina se ne contano 400 milioni, imposti dalla legge del figlio unico sotto il regime comunista. Ogni anno in tutto il mondo vengono uccisi 53 milioni di bambini; il Novecento è stato considerato uno dei più violenti nella storia dell'umanità, tra guerre, massacri. regimi totalitari...; è vero che l'aborto nella storia era praticato, per di più insieme ad altri atti altrettanto ignominiosi come infanticidi, massacri di civili, sacrifici umani, schiavismo, ma mai a nessuno è venuto in mente di legalizzarlo! Così scriveva Marcel Proust: "Da tempo non si rendevano più conto di ciò che poteva avere di morale o di immorale la vita che conducevano, perché era quella del loro ambiente. La nostra epoca senza dubbio, per chi ne leggerà la storia tra duemila anni, sembrerà immergere certe coscienze tenere e pure in un ambiente vitale che apparirà allora come mostruosamente pernicioso e dove esse si trovavano a loro agio".
Questo di oggi è uno dei più grandi massacri nella storia dell'uomo. Come si può arrivare a tanto! Madre Teresa diceva sempre che i bambini abortiti sono i più poveri tra i poveri: uccisi nel loro stato di abbandono più totale, quello vitale tra madre e figlio, uniti nella carne. Come può colei che per prima ama la propria creatura uccidere il frutto della vita.. la vita.. solo a nominarla mi gira la testa! Siamo capaci di generare un esserino uguale a noi, il più bel miracolo che Dio ci ha donato e noi lo buttiamo nel cestino.
Ora vedremo fino a che punto la crudeltà umana si è spinta, con le principali tecniche abortive (senza contare gli aborti clandestini effettuati dopo il terzo mese):
Aspirazione endometriale: attraverso il collo dell'utero, senza dilatarlo, si inserisce nell'utero una cannula flessibile di plastica, la cui estremità è fissata a una fonte di suzione - una pompa elettrica o meccanica, o, nella gravidanza precocissima, una siringa - che risucchia i tessuti nella parete uterina, ossia l'endometrio o rivestimento cresciuto durante le quattro settimane del ciclo mestruale, e, se la donna è incinta, la particella di tessuto fetale.
Dilatazione ed evacuazione: la cervice viene dilatata per permettere il passaggio delle canule da suzione di diametro maggiore necessarie ad evacuare la maggiore quantità di parti dell'embrione e della placenta.
Dilatazione e raschiamento: questa procedura consiste nella dilatazione del canale cervicale attraverso l'uso di dilatatori osmotici o meccanici. Il feto viene quindi rimosso. Vengono poi aspirati il liquido amniotico la placenta e i residui fetali
Isterotomia: Raramente utilizzato a causa dei gravi rischi per la fertilità e la salute della donna. È la tecnica che consiste nell'asportazione del feto tramite taglio cesareo.
Induzione farmacologica (RU 486): L'induzione farmacologica dell'aborto è l'ultimo metodo di interruzione di gravidanza introdotto nella medicina. Con questo metodo il distacco del feto dall'utero è chimico, e non è necessario nessun intervento di natura chirurgica sul corpo della donna. La prima pillola induce l'aborto fisiologico, mentre la seconda, sempre chimicamente, induce l'espulsione del feto e la pulizia dell'utero.
Nascita parziale: vietato dalla legge italiana, effettuato dalla sedicesima settimana alla nascita. Esso consiste nell'estrazione parziale del feto dall'utero attraverso l'uso di una pinza, che permette l'avvicinamento del cranio alla cervice e lo svuotamento del medesimo attraverso l'introduzione in esso di una canula aspiratrice.
Ragazza, ribellati a quello che la società vuole inculcarti, l'aborto è omicidio. Lo smembramento crea dolori atroci al feto. Credere che sia lecito abortire solo perché il bambino non sia pienamente sviluppato è una menzogna che ti rovinerà la vita. L'aborto per la psicologia della donna è devastante: depressione, ansia, uso di sostanze, abuso di sostanze e atti suicidari. Se stai affrontando una gravidanza, fatti coraggio, la vita sta fiorendo nel tuo grembo, un piccolo germoglio d'amore cresce in te. Dagli la possibilità di vivere, e se proprio non lo vuoi, ci sono altri metodi, come l'adozione. La via facile non è sempre giusta. Appena l'ovulo è fecondato Dio ne imprime l'anima; c'è miracolo più grande di questo? Ti hanno consigliato di abortire perché tuo figlio non sarà sano? Non è sano chi ti consiglia questo! Ci sono coppie in tutto il mondo che adottano questi bambini, che per prima cosa amano e hanno un cuore, proprio come te. Sei rimasta incinta dopo aver subito violenze? Non è facile, ma non aggiungere altro male a te stessa, peggiorerai di molto la tua sfera psicologica. Nel tuo passato hai abortito? È ora di affrontare te stessa, e il dramma che ti porti dentro; Dio ti sta aspettando, se tu lo vuoi c'è' la sua misericordia ad attenderti, il suo perdono; sperimenterai la gioia più grande che la vita possa regalarti, il perdono di Cristo. Rifugiati tra le sue braccia, Lui non vuole altro che la tua felicità, abbi fiducia e abbandonati, riposati sul suo cuore. Tu sei donna, simbolo di vita e fertilità, non sei una macchina da sesso; sei stata creata per essere madre, pura come la vita che nasce dal tuo corpo meraviglioso. Non renderti complice dello spargimento di altro sangue innocente, grida silenziose, soffocate nell'indifferenza del mondo; vite gettate nel cestino come immondizia.
"...fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate..." G.K. Chesterton scrittore, giornalista e aforista inglese.
FONTI: Antonio Socci "Il genocidio censurato"



Rachele

Sono una studentessa di Scienze Religiose ad Assisi. Faccio parte dell'associazione Casa del Cuore - Amici del Congo, siamo un gruppo di ragazzi che cerca di aiutare i bambini congolesi di Kingouè.


fonte: http://www.buonanovella.info/

mercoledì 28 agosto 2013

"Paternità": riproduzione dell'opera di Torresin Pietro





"Maternità" : riproduzione dell'opera di Torresin Pietro







Lui e l'aborto

padre e bambino
Lui e l’aborto: il primo e unico video in Italia sul tema. Intervento di Antonello Vanni, autore di Lui e l’aborto. Viaggio nel cuore maschile (San Paolo Ed.) al Maternity Care del MPV italiano, Torino, 13 aprile 2013: l’uomo e l’aborto in Italia, i pregiudizi sulla figura maschile, il trauma postabortivo maschile, il padre risorsa per salvare i bambini dall’aborto.
Clicca qui per vedere il video

fonte: prolifenews.it

Cure per la sindrome di Down? L'Italia non ci crede



Ricerca all’avanguardia. Strippoli (Università di Bologna): Si investe di più in altri settori. Il nostro scopo? Identificare composti naturali o farmaci la cui miscela inibisca le attività presenti in eccesso nelle cellule trisomiche.

«Alla fine degli anni settanta, il professor Lejeune era convinto che si potesse trovare una terapia per curare la sindrome di Down, una patologia che è considerata irreversibile nella mentalità comune, essendo particolarmente complessa». Lo spiega Pierluigi Strippoli che guida un’equipe di ricerca sulla sindrome di Down nel Laboratorio di Genomica del dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna.

Lejeune come era arrivato a questa considerazione?
Si rese conto che il cromosoma in più presente nei bambini Down produceva un eccesso di proteine. L’uomo normalmente ha due cromosomi che producono una certa quantità di proteine. Con un cromosoma in più quelle proteine sono in eccesso. Definì questo fatto un’intossicazione cronica. Un’intuizione straordinaria perché di fronte a una struttura genetica alterata la medicina si sente impotente. Al contrario davanti a un’intossicazione si può agire identifi- cando il componente in più e provando a inibirlo o a rimuoverlo.

La ricerca sulla sindrome di Down però a tutt’oggi non è tra le più sviluppate...
In Italia e non solo si investe di più sulle cosiddette malattie monofattoriali, dovute a singoli geni. Le ricerche sulla trisomia 21 sono portate avanti da pochissimi gruppi in tutto il mondo. Situazione paradossale perché si tratta di una condizione genetica molto comune.

I gruppi di ricerca come si rapportano alla materia?
A livello internazionale ha preso piede la ricerca con alcuni ceppi di topi che possono mimare alcuni aspetti della trisomia 21. Poi ci sono gruppi di ricerca in biologia e in genetica molecolare. Noi cerchiamo di unire lo studio degli aspetti clinici con l’analisi delle mappe del cromosoma 21, che stiamo contribuendo a completare. Dopo 20 anni di ricerche in laboratorio, mi sono reso conto che era fondamentale tornare in reparto per identificare soggetti con caratteristiche che potrebbero illuminare alcuni aspetti della sindrome. Strategia che mi ha consigliato la stessa moglie di Lejeune.

Metodo già applicato da lui...
Ho iniziato a leggere i suoi lavori della fine degli anni settanta e mi hanno letteralmente illuminato. Cosa del tutto insolita dal momento che in medicina un testo che ha compiuto un anno è considerato vecchio. Lejeune aveva capito che si potevano legare tutti i sintomi della malattia a specifiche attività biochimiche codificate nel cromosoma. Ha compiuto studi biochimici per capire quali vie metaboliche fossero principalmente alterate nella sindrome. Oggi abbiamo la possibilità di continuare questi studi con strumenti molto più avanzati.

Qual è il vostro punto di forza?
Stiamo analizzando a livello bioinformatico l’attività dei geni del cromosoma 21 anche nei tessuti normali, per identificare quelli maggiormente espressi negli organi più colpiti dalla sindrome: il cervello, il cuore e la tiroide. Vogliamo identificare le regioni critiche del cromosoma che sono le principali responsabili dei sintomi. Solo quando questo sarà stato fatto potremo ipotizzare una terapia razionale.

A cosa serve oggi capire se un bambino è Down prima della nascita?
Concretamente l’unica reale applicazione della conoscenza prenatale risiede nel prevedere con maggiore tempestività cure cardiologiche e cardiochirurgiche. Ma per questo basterebbe l’ecografia. Sta diventando possibile identificare un cromosoma 21 in eccesso sequenziando il Dna fetale nel sangue materno con un’affidabilità del 99 per cento. Questo vuol dire che una mamma potrà sapere in anticipo con una certezza quasi assoluta se suo figlio è Down o no, senza ricorrere agli esami fortemente invasivi oggi disponibili. L’amniocentesi e la villocentesi, sebbene siano considerati esami di routine, continuano ad avere una percentuale di aborto aggiuntivo causato dalla manovra di quasi l’1 per cento. In un caso su 150 si verificherà l’aborto in seguito alla manovra, indipendentemente dallo stato del feto.

Però la comunità scientifica sta continuando a muoversi anche in questa direzione...
Sono due filoni di ricerca assolutamente distinti: migliorare la capacità della diagnosi per identificare i feti Down e, di fatto, non farli nascere oppure lavorare per trovare una terapia e una cura. Dalla letteratura medica degli ultimi vent’anni emerge che le ricerche sulla diagnosi prenatale della sindrome di Down sono almeno dieci volte superiori a quelle finalizzate a trovare i meccanismi della malattia. Come diceva Lejeune, quando nella storia della medicina si è provato a sconfiggere una malattia eliminando i malati, questo non ha mai portato a un progresso della medicina stessa. Al di là dell’evidente problema etico, ce n’è anche uno scientifico.

Qual è quindi il vostro scopo?
Identificare composti naturali o farmaci la cui miscela potrebbe riuscire a inibire le attività che sono presenti in eccesso nelle cellule trisomiche. Questi potrebbero essere somministrati dopo la nascita, e forse anche prima. Noi stiamo concentrando gli studi a livello pediatrico. Ci sono già stati sviluppi in questa direzione nel mondo: in Spagna stanno studiando un inibitore naturale, un polifenolo che si estrae dal tè verde. I dati preliminari non parlano di risultati eclatanti ma è interessante il principio alla base dello studio.

In che tempi potreste riuscire a scoprire qualcosa di risolutivo?
Nella ricerca non si può mai prevedere nulla. Quello che è certo è che noi abbiamo preso una direzione precisa che potrebbe dare dei risultati concreti. Grazie alla mia esperienza ho capito che, quando si cerca una soluzione, qualcosa si trova sempre.

di Caterina Dall'Olio

Fonte: Avvenire del 27 agosto 2013

martedì 27 agosto 2013

Una storia triste….anzi no

24 agosto, 2013
Ospedale

di Stefano Bruni*
*pediatra

 
A due anni e due mesi di vita un bimbo dovrebbe ricordare l’immagine di Gesù bambino che l’iconografia tradizionale ci offre: allegro e spensierato, con la sua mamma e il suo papà. E invece guardando il corpo martoriato di Lucia viene da pensare a Gesù crocifisso.
Una flebo infonde farmaci al suo corpicino collegata ad una vena di un piedino. Il resto del corpo è cosparso di petecchie e di ematomi. La cute è pallidissima per effetto della grave anemia che la affligge. Gli occhietti, appena visibili tra i cerotti che le attaccano al viso una mascherina per l’ossigeno, non sono i suoi soliti occhietti vispi e pieni della gioia di vivere: sono spenti, malinconici, impauriti. Già, impauriti. Chiunque entri nella sua cameretta, nel reparto di onco-ematologia dell’Ospedale in cui è ricoverata, Lucia lo guarda con terrore; lo sguardo corre dall’intruso alla mamma che le è accanto, in cerca di protezione; e poi torna all’intruso e si vela di qualche lacrima; e poi ancora alla mamma. Ma le forze sono scarse e Lucia non riesce ad attaccarsi alla mamma.
Quegli intrusi sono lì per curarla; sono medici ed infermieri, vestiti di bianco, di verde, qualcuno persino con dei fiori disegnati sul camice. Sono gentili; dietro le mascherine, che indossano per non trasmetterle malattie che ne aggraverebbero le condizioni, sorridono a Lucia che però è troppo piccola e spaventata per riuscire ad intuirlo solo dai loro occhi. Vallo tu a spiegare ad una bimba di due anni e due mesi che quelle siringhe piantate nelle pieghe dei gomiti e sulle mani e i piedi (come i chiodi che hanno attaccato Gesù alla croce), quei lacci che prima della puntura della carne la stringono, provocando vistosi ematomi (come il flagello con cui è stato frustato Gesù) a causa del bassissimo numero di piastrine che le sono rimaste, quella mascherina (che mi ricorda tanto la corona di spine imposta a Gesù) che le rende difficile persino piangere sono strumenti non di tortura ma di cura? A Lucia hanno appena diagnosticato una leucemia acuta. A due anni e due mesi. Come può una bimba di due anni e due mesi affrontare una prova di questa gravità? Eppure non è la prima volta che Lucia deve affrontare una ospedalizzazione per una malattia importante.
Ricordo quando il papà e la mamma me la portarono la prima volta in ambulatorio. Avevano l’impressione che la bimba respirasse male. Ed avevano ragione. Lucia, quando l’ho visitata, era fortemente dispnoica, cioè aveva difficoltà a respirare; conseguentemente il suo sangue si ossigenava con difficoltà e il saturimetro, uno strumento che serve a misurare lo stato di ossigenazione del sangue, mostrava valori preoccupanti. Quando posso cerco di gestire senza ricoverare i bimbi ammalati. Ma in questo caso ho dovuto inviare immediatamente in Ospedale Lucia. Aveva poco meno di due mesi, allora, e una bronchiolite, una grave infezione causata da un virus particolarmente pericoloso nel lattante, il Virus Respiratorio Sinciziale. Per fortuna Lucia, quella volta, dopo qualche giorno di Ospedale e le cure del caso ha iniziato a migliorare ed è guarita ed ha potuto tornare a casa. L’ho visitata successivamente diverse volte, per episodi infettivi banali e anche semplicemente per valutarne la crescita. Sempre sorridente, mai impaurita dalla visita; quando è stata in grado di farlo, ricordo che, seduta sul lettino, prendeva il martelletto e imitava i miei gesti nel tentativo di evocare i riflessi rotulei, poi si metteva il fonendoscopio intorno al collo come fosse una collana e imitava un’ascoltazione del torace sorridendo. Una bimba normale, dolcissima, con i suoi ricci castani ed i suoi occhi scuri, profondi. Le guanciotte rosse, così lontane dal colorito pallido di questi giorni.
Per qualche mese non ho visto la bimba. La mamma mi ha poi detto che andava tutto bene. Si era anche adattata molto bene all’asilo nido e, a parte qualche raffreddore e un paio di faringiti, tutto sembrava andare nel migliore dei modi. Poi, una settimana fa (ndr: sette giorni prima che io abbia sentito il bisogno di raccontare la sua storia), una febbre che persiste da qualche giorno, una tosse che alla mamma “non piace”, la visita dalla pediatra di famiglia che nota qualche petecchia sulle gambe e sotto le palpebre e consiglia un ricovero per accertamenti. Poche ore e molti prelievi ed esami strumentali dopo il ricovero, mentre Lucia appare sempre più prostrata, la terribile diagnosi: leucemia acuta. Non un segno premonitore, nulla che facesse pensare a questo “tsunami”, devastante per la famiglia di Lucia. La mamma mi chiama al telefono e piangendo mi racconta cos’è successo. La sua piccola Lucia ha la leucemia. Non ho parole: la mia piccola Lucia (i bimbi che seguo in ambulatorio li sento un po’ anche miei, non me ne vogliano i loro genitori) ha la leucemia. Ha solo due anni e due mesi, com’è possibile? Eppure lo so che è possibile: ne ho visti tanti di bimbi piccolini con malattie altrettanto gravi. Ma non riesco a farci l’abitudine. Proprio non ci riesco.
Il primo impulso è di andarla a trovare in Ospedale, abbracciare il papà e la mamma per far loro sentire, per quello che può contare in momenti come questo (ma credo che possa contare qualcosa), che se lo vogliono possiamo fare insieme questo pezzo di strada, dolorosa, in salita ma con una meta che oggi, a differenza di qualche anno fa, è certamente alla portata di Lucia: la guarigione. E così, lasciandomi guidare dal cuore, vado. Lucia è sul suo lettino, con il suo orsetto accanto ed il lenzuolino, la sua copertina di Linus, saldamente stretta in mano. È pallidissima; sulle braccia e sulle gambe vistosi ematomi indicano i tentativi di cannulare le sue piccole vene per prelevare il sangue per gli esami ed infonderle le prime terapie. Sul lettino, dei pennarelli ed un libricino da colorare, tentativo di distrarla e farle passare qualche momento da bambina, a fare qualcosa da bambino, a pensare che la vita è colorata anche nel grigio e nella penombra di quella stanza. Unica altra nota di colore, il rosso luminoso del sensore del saturimetro avvolto intorno ad un ditino del piede. Ci scherziamo sopra con Lucia; che si tocca il piedino, ma non riesce a sorridere.
Le hanno prelevato anche un campione di midollo osseo: la diagnosi è certa, le prospettive quelle di un trattamento lungo e faticoso, di una guarigione possibile, e di anni, lunghi anni di controlli e di ansia per la mamma, il papà, i nonni. Nella mia carriera di medico ho visto tanti bambini, di tutte le età, soffrire. È una cosa cui non ho voluto abituarmi, cui non ci si può abituare. Nei reparti di terapia intensiva neonatale, nelle stanze del Pronto Soccorso, nella medicheria dell’onco-ematologia pediatrica dell’Ospedale in cui ho lavorato (dove ho fatto la mia prima guardia di 12 ore, in un giorno di Pasqua che ricorderò per tutta la vita) o negli ambulatori dove ho visitato bambini con gravi e rare malattie genetiche, ho conosciuto la disperazione di tante mamme e di tanti papà, ho toccato con mano la loro sofferenza insieme a quella dei loro figli. E mi sono domandato tante volte perché Dio permetta questa sofferenza, tanto più in coloro, i bambini, che rappresentano l’innocenza, che sono i più indifesi. Ma ho visto anche tanta luce, tanta speranza, tanta forza e tanta fede.
Ho visto l’angoscia dell’oggi ma anche la speranza nel domani. Ho visto una mamma (una come tante) gioire insieme ad un medico per un emocromo con qualche migliaio di piastrine in più e un papà (uno come tanti) fermarsi e dedicare finalmente qualche ora in più al suo bambino rimproverandosi per non averlo fatto prima. Mi è capitato di piangere insieme a chi piangeva e di sorridere con chi aveva motivo di speranza. Ho sentito tante persone gridare, come Gesù sulla croce (non vi sembri blasfemo questo paragone: Gesù non era forse un uomo come noi, anche se Dio? e noi non siamo forse fatti ad immagine e somiglianza di Dio stesso?) “Dio mio, Dio mio: perché mi hai abbandonato?”. Ma ho visto nei gesti concreti di tante persone la realizzazione di quell’affidamento a Dio sintetizzato nelle parole “sia fatta la tua volontà”. Ho sentito genitori urlare silenziosamente “basta!”, di fronte alle sofferenze dei loro bambini. Ma un attimo dopo li ho visti ricominciare a lottare insieme ai medici accanto ai figli, circondati dall’amore della famiglia. Amore che può fare tantissimo, perché quando si è soli a lottare si può pensare di non farcela, ma insieme è tutta un’altra cosa. Con l’aiuto e l’amore degli altri questa paura svanisce e le persone trovano un vigore ed un coraggio che non sapevano di avere, una speranza nuova. Alla faccia di chi vorrebbe chiudere la pratica con una molto più economica e asettica “eutanasia”.
Lucia è ancora seduta sul suo lettino. È appoggiata ai due cuscini che la sostengono, debole com’è. Penso che non dovrebbe esserle capitato ciò che le è capitato: è così piccola… Ma chi sono io per dire se sia giusto o no ciò che le è capitato? Di una cosa sono certo, però: non è Dio che ha voluto questa sofferenza per lei. Dio è il contrario del male. E anche di un’altra cosa ho la certezza assoluta, perché l’ho visto centinaia di volte: Dio si mette accanto a chi soffre, si offre di fare questo pezzo doloroso e difficile di strada insieme. Lo fa “in incognito”, servendosi dei medici, dei propri cari, degli amici, anche di estranei che ci accorgiamo ad un certo punto di avere accanto. Ma lo fa anche in prima persona, direttamente e intimamente nel cuore di chi lo accoglie, cui grida (mi sembra di sentire la sua voce): “Vedi, io ero sulla croce prima di te, conosco le tue sofferenze; ma ora sono qui, davanti a questo sepolcro vuoto, perché ho vinto la morte. Dammi la tua mano: portiamo insieme la tua croce.”
La mamma di Lucia, quando la saluto, ha gli occhi lucidi ma non ha più lacrime. Le ha già piante tutte. Trova la forza per abbozzare un sorriso. Ma non sembra un sorriso di circostanza: entrambi sappiamo che non c’è motivo, in questa situazione, di aspettarci un sorriso di circostanza, né da lei né da me. È dunque un sorriso sincero, una richiesta di vicinanza, un dialogo aperto. Lucia mi segue con lo sguardo mentre esco dalla stanza. Non dice nulla. Non sorride, come invece faceva quando la visitavo nel mio ambulatorio. Ma nel suo sguardo, almeno in questo momento non c’è più la paura che vi ho letto all’inizio della mia visita. Nell’atrio incontro il papà e la nonna di Lucia che sono rimasti fuori per permettermi di stare qualche minuto nella stanzetta insieme a Lucia: mi rendo conto che ho portato loro via dei minuti preziosi che avrebbero voluto passare insieme alla loro bimba. Chiedo scusa. E loro invece mi ringraziano e mi fanno sentire davvero parte della loro famiglia. Il papà vuole accompagnarmi fin fuori dall’Ospedale. Non ha molte parole da dire. Rispetto al dolore, grandissimo, certamente, in questo momento prevalgono l’incredulità e la paura. Siamo d’accordo che mi aggiorneranno per telefono sulle condizioni di Lucia e che io ogni tanto tornerò a trovarla.
Le mie conoscenze scientifiche mi dicono che la percentuale di sopravvivenza libera da malattia per le patologie del tipo che ha colpito Lucia è piuttosto alta. La mia esperienza umana di medico mi dice che per quanto alta possa essere questa percentuale si tratta comunque di un semplice numero che ha un valore molto relativo per una famiglia al cui bimbo è stata appena posta una diagnosi tanto brutta. Il mio cuore mi urla che mentre i colleghi che hanno in cura Lucia si prodigheranno per trasformare quella probabilità in una certezza io, insieme a tutti coloro che vogliono bene a Lucia possiamo fare qualcosa di tanto piccolo e semplice quanto grande ed importante: possiamo stare vicino a lei, alla sua mamma e al suo papà, camminare al loro fianco, riflettere l’amore e la vicinanza di Gesù a questa famiglia.
È una storia triste questa? Certo, umanamente non la si può definire in altro modo. Ma forse anche no. Perché dove c’è la sofferenza c’è spazio per la solidarietà umana, per la compassione, quella vera, quel patire insieme che significa distribuirsi un po’ il peso della sofferenza, fisica, psicologica, morale. Ma soprattutto nella sofferenza c’è Dio, che non la vorrebbe certamente per noi , suoi figli, come nessun papà e nessuna mamma vuole la sofferenza per i propri figli, ma che si serve anche della solidarietà umana per accendere la luce della speranza. Il papà di Lucia mi saluta. Ci stringiamo la mano. È una stretta forte, sincera. Come il sorriso che mi fa.

fonte:uccronline.it

venerdì 23 agosto 2013

Ciò che il buon senso già sa, la scienza conferma

Feto umano

di Stefano Bruni*
*pediatra

 
Tanto per cominciare, sgombriamo subito il campo da possibili equivoci. La vita umana è tale, e come tale va rispettata, dal momento del concepimento al momento del suo termine ultimo.
Ciò che viene a determinarsi a seguito dell’unione di uno spermatozoo e di una cellula uovo umani è un nuovo essere umano vivente, unico ed irripetibile che, in un susseguirsi progressivo di quotidiani e meravigliosi eventi maturativi arriva ad essere, in condizioni fisiologiche in un periodo di nove mesi, quella meravigliosa creatura che è il neonato. Il quale, a sua volta, è solo uno stadio intermedio, ma non per questo meno perfetto o meno umano, di ciò che progressivamente diventerà un bambino, poi un adolescente, quindi un giovane uomo e un adulto e infine un anziano.
In questo continuo processo di sviluppo, lo zigote unicellulare di 0,1 mm di diametro circa (concepito nell’utero materno in maniera naturale ma anche prodotto in laboratorio e poi congelato), il feto in ogni stadio della sua progressiva maturazione, il neonato medio di 3,500 kg di peso per 50 cm di lunghezza, l’adulto di 70 kg e 175 cm e persino il malato terminale sceso a 35 kg di peso, tutto pelle e ossa e sofferenza, tutti sono espressione dello stesso essere umano la cui vita NON è nella disponibilità degli altri esseri umani, nemmeno in quella dei suoi cari, in primis della sua mamma.
La dignità dell’essere umano è indipendente dal numero di cellule da cui è composto il suo corpo o dal grado di maturazione dei suoi organi ed apparati, ivi incluso il sistema nervoso centrale (che, lo ricordo, non è completamente maturo fino all’età adulta, come, tra gli altri e solo a mero scopo esemplificativo, gli studi della dottoressa Sarah-Jayne Blakemore, dell’University College di Londra, hanno ampiamente dimostrato). Così come è indipendente dalle sue competenze, dalla sua coscienza di se stesso, dalla sua abilità a sopravvivere autonomamente, dalle sue capacità di rapportarsi con l’ambiente e gli altri esseri umani, dal suo stato di salute.
Dunque sopprimere la vita di un essere umano, anche se ancora in sviluppo nel grembo materno, magari da alcuni anni non è più considerato un omicidio grazie ad una legge che lo permette e lo rende “legale”, ma resta un assassinio intollerabile, tanto più perché atto violento compiuto contro un essere umano indifeso e per di più proprio da coloro (genitori e medici) che della vita umana dovrebbero maggiormente avere cura. E lo stesso vale per l’uccisione di un bambino nei primi mesi di vita, da alcuni teorizzato sulla base delle supposte “incompetenze” di quest’ultimo, sano o malato che sia (personaggi come Singer o la Warren o Tooley, sono arrivati a teorizzare l’eticità dell’uccisione di bambini dopo la nascita così come quella dei feti prima della nascita e le loro teorie hanno portato, tra l’altro, ad aberrazioni come il Protocollo di Groningen proposto da Eduard Verhagen nel 2005).
Date le suddette premesse trovo comunque molto interessanti i risultati dei nuovi studi scientifici che, in maniera assolutamente rigorosa, ogni giorno vengono pubblicati e ci spiegano come il bambino piccolo o il feto abbiano, a dispetto di quanto qualche loro detrattore si ostina a voler far credere, competenze assolutamente meravigliose se contestualizzate alle loro “proporzioni”, piccole se paragonate a quelle di un essere umano adulto. Semplicemente, oggi chi sostiene che un feto o un neonato o un bambino piccolo possono essere ammazzati in quanto non hanno competenze che si vorrebbero appannaggio solo dell’età adulta, deve prendere atto che le basi su cui poggia il proprio ragionamento non sussistono più (sempre che siano mai state una giustificazione accettabile, il che non è). Ogni giorno, nuove acquisizioni scientifiche ci dicono che l’essere umano è uno solo in tutte le fasi del suo sviluppo che sono un continuum e non c’è un dopo senza un prima; dunque non si può stabilire una “gradazione” di dignità o personalità o diritto alla vita. Almeno non se si è in buona fede.
Lo scorso Aprile, su Science (credo di non dover specificare che si tratta di una rivista scientifica peer reviewed  tra le più prestigiose) un gruppo europeo di esperti nel campo delle neuroscienze ha pubblicato i risultati di un interessante studio effettuato su un gruppo di bambini di 5, 12 e 15 mesi di vita, volto all’individuazione di un marker neurologico di coscienza percettiva. L’articolo è un po’ complesso per i non esperti ma in estrema sintesi proverò in modo semplice a spiegare cos’hanno fatto gli autori e quali sono stati i loro risultati.
Come nell’introduzione al loro lavoro dicono gli autori stessi, oggi sappiamo bene che i bambini, già dai primi mesi di vita, hanno un sofisticato repertorio comportamentale e cognitivo suggestivo della loro abilità a presentare riflessi coscienti. Tuttavia nel bimbo, che non può ancora parlare e manifestare chiaramente i propri pensieri, la dimostrazione di ciò è complicata. Questi ricercatori dunque hanno pensato di applicare ai bambini una tecnica già consolidata negli adulti per dimostrare la presenza della coscienza attraverso l’evidenza di uno specifico dato elettrofisiologico; nello specifico questa “firma” elettrofisiologica corrisponde ad una risposta corticale tardiva non lineare che viene attivata dalla visualizzazione di immagini mostrate al soggetto in studio per un breve periodo.
Nel soggetto adulto la risposta del cervello ad uno stimolo visivo (registrabile con opportuni strumenti non invasivi) si caratterizza per una prima fase (entro i primi 200-300 ms dallo stimolo) in cui l’attivazione della corteccia procede linearmente con l’intensità dello stimolo e in una seconda fase ( dopo i primi 300 ms, nei soggetti con coscienza intatta) con una nuova risposta più complessa, non lineare, appunto, espressione dell’attivazione di più aree cerebrali. Questa seconda fase permette il mantenimento della rappresentazione percettiva anche molto tempo dopo che la somministrazione dello  stimolo è cessata e corrisponde ai report soggettivi di visione. In altre parole solo la presenza della seconda fase descritta abilita l’individuo all’esperienza visiva cosciente.
Ebbene, applicando la stessa tecnica a bambini di 5, 12 e 15 mesi di età i ricercatori hanno trovato le stesse dinamiche note per l’adulto. Unica differenza: tempi di latenza (un po’ più lunghi), picchi di voltaggio e “forma” delle componenti del riflesso sono quantitativamente un po’ diverse rispetto a quanto evidenziato nei bimbi di 12-15 mesi che hanno caratteristiche più vicine a quelle dell’adulto. Ciò è evidentemente da mettere in relazione con lo stato maturativo (progressivo) delle strutture cerebrali e in particolare con la mielinizzazione di strutture che sappiamo bene comunque essere già presenti nel lattante e, prima ancora, nel feto, e con lo sviluppo dei dendriti e la sinaptogenesi che, iniziate ben prima della nascita, presentano un particolare incremento alla fine del primo anno di vita (per poi continuare per molto tempo successivamente). Questo studio dimostra quindi come anche i bambini molto piccoli sono dotati degli stessi meccanismi cerebrali responsabili della percezione cosciente la quale dunque è già presente in epoche molto precoci dello sviluppo e continua ed accelera durante lo sviluppo postnatale.
In un mio articolo precedente avevo riferito di analoghe prove, dirette e indirette, che ci permettono di affermare scientificamente che anche nel feto questa percezione cosciente è evidenziabile in epoche molto precoci dello sviluppo. Certo le suddette informazioni non possono e non devono costituire il presupposto per la scelta di un termine, del tutto arbitrario e pretestuoso, prima del quale si possa considerare lecito sopprimere una vita umana: mai è lecito sopprimere una vita umana, come già sottolineato in precedenza, perché (e questo è il valore degli studi che ho riportato) ogni momento del suo sviluppo chiaramente e inconfutabilmente rappresenta una tappa di un continuum che è la vita umana.
Non è certo perché lo dice la scienza che io credo che l’embrione, il feto, il bambino piccolo non possono essere uccisi. È semplicemente il buon senso che mi dice che io sono stato un embrione e che quell’embrione era semplicemente e meravigliosamente il primo stadio del mio sviluppo; e poi sono stato un neonato, incapace di compiere calcoli matematici o imparare poesie a memoria o guadagnarmi da vivere, dipendente com’ero per la mia stessa sopravvivenza dalla mia mamma; e poi sono stato un adolescente brufoloso, spesso più istintivo che razionale, ombroso; ed ora sono un adulto (nemmeno più troppo giovane, ahimè!). Sono stato tutto questo e tanto altro ancora dovrò essere: in altre parole sono stato, sono e sempre sarò uomo. E mi seccherebbe parecchio, ora, se qualcuno, ormai diversi anni fa, avesse deciso che non ero degno di vivere perché “incompetente”.
Il buon senso mi convince già abbastanza, dunque. Però la scienza, che alcuni vorrebbero usare per sostenere la liceità di aborto e infanticidio, al contrario mi sembra chiaro che contribuisce a rafforzare l’idea opposta.

Fonte: uccronline.it



mercoledì 7 agosto 2013

Sono il papà di un bimbo con sindrome di down


La lettera di un padre: "Ringrazio l'AIPD e le altre istituzioni. Oggi sono felice".




04/08/2013  Gentile Direttore,
sono il papà di un bimbo con sindrome di down di un anno.
Quest'anno è stato per me di "sperimentazione", di studio di tale situazione di "normale diversità". Oggi ripenso allo smarrimento, lo sgomento, l'incredulità del primo istante e a come sarebbe stato ancora più complicato districarsi fra la burocrazia e affrontare questa "nuova vita" senza l'aiuto di parenti, amici, senza la macchina organizzativa di assistenza sociale del Comune di Parma e anche dell'ospedale, al quale va il mio grazie.
Ma il grazie più grande lo rivolgo, e l'ho già fatto con loro, alla AIPD - ass italiana persone con sindrome di down. La loro vicinanza, i loro consigli e le loro dritte mi hanno dato davvero tanto, facendomi scoprire questo mondo "diverso" e oggi sono il papà piu felice del mondo.
Ecco perché, a distanza di un anno, ho chiesto alla Aipd di aprire una sede a Parma. Credo che un'associazione specifica sia l'opportunità per Parma di conoscere meglio questa disabilità, le famiglie di persone down e le persone stesse... e possa essere un luogo non solo di incontro per persone down o loro familiari, ma un luogo di integrazione fra persone con " diverse abilità " siano esse disabili o meno...

A.M.

L’Associazione Italiana Persone Down,Nata a Roma nel 1979 con la denominazione di Associazione Bambini Down, si pone quale punto di riferimento per le famiglie e gli operatori sociali, sanitari e scolastici su tutte le problematiche riguardanti la sindrome di Down.
Il suo scopo è tutelare i diritti delle persone con sindrome di Down, favorirne il pieno sviluppo fisico e mentale, contribuire al loro inserimento scolastico e sociale a tutti i livelli, sensibilizzare sulle loro reali capacità divulgare le conoscenze sulla sindrome.
L’AIPD fa parte dal 1994 della Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap (FISH).
Mantiene inoltre rapporti con le altre associazioni di persone con sindrome di Down italiane per un utile scambio di informazioni e per affrontare con una linea unitaria temi di interesse comune.
In tale ambito si è costituito un coordinamento (www.coordown.it) che sta progressivamente strutturandosi e che si incontra annualmente in Assemblea.
Sul piano internazionale è membro dell’EDSA (European Down Syndrome Association) e del FID - Forum italiano per la disabilità, organo di coordinamento delle realtà italiane per la rappresentanza in Europa.
L’Associazione Italiana Persone Down ha 45 Sezioni su tutto il territorio nazionale ed è composta prevalentemente da genitori e da persone con questa sindrome.
Stiamo avviando i lavori per la costituzione di una sezione “AIPD” anche nella città di Parma,che possa essere nel tempo sia un punto di informazione e supporto che un luogo di incontro fra la città,le persone con sindrome di Down ed i loro familiari.
Per far ciò abbiamo bisogno della prima adesione di un numero minimo di famiglie,pertanto se interessati inviare una mail con i propri dati per essere ricontattati ad aipd.parma@gmail.com 

Fonte: parmadaily.it