lunedì 6 febbraio 2012

IL DANNO DOPO LA BEFFA di Serena Taccari

04-02-2012 

Domenica 5 Febbraio la Chiesa italiana celebra la Giornata della Vita. Nell'occasione vi proponiamo la testimonianza di Serena Taccari, presidente della associazione "Il dono" onlus (www.il-dono.org), che si occupa di seguire le donne che hanno avuto un aborto. La testimonianza è tratta dal libro curato da Giovanni Corbelli, "Mamme che piangono - Il dolore che resta dopo un aborto", edito da Fede & Cultura. Il libro è uno dei progetti sostenuti in vista della Marcia per la Vita che si svolgerà a Roma il prossimo 13 maggio (info@marciaperlavita.it). Chi volesse acquistare il libro può farlo direttamente dalsito dell'editrice "Fede e Cultura".
Accompagnare gli eventi di nascita è una cosa b
ellissima di cui tutti andiamo fieri e che portiamo come fiore al nostro occhiello. Eppure se si vuole parlare di vita c’è anche altro, qualcosa in cui nessuno ha voglia di stare, che è davvero troppo scomodo, e che obiettivamente dal punto di vista sociale ha rappresentato e rappresenta una carenza ben vistosa. Sì, perché si dà il caso che una bella pancia di una mamma sia sotto gli occhi di tutti, un bambino che nasce sia sotto gli occhi di tutti, una donna che sorride sia sotto gli occhi di tutti. Eppure anche il fatto che sia una donna – che è anche lei vita – con i suoi piedi a entrare in ospedale con una gravidanza e ad uscire dall’ospedale senza la gravidanza, sempre lei, coi suoi soliti piedi, è sotto gli occhi di tutti. 

E poi? Dove va? Cosa fa? È chiaro che un mondo che propone l’aborto come soluzione di tutti i maggiori problemi femminili non può tollerare di vedere quello di cui non ci si vanta, quello di cui non si va fieri: la donna che ha abortito. Ma è davvero una carenza abbastanza vistosa, proporre alle donne la scelta dell’aborto magari dopo aver negato l’esistenza in quel minuscolo embrione, di un figlio, e poi dimenticarsi di quelle stesse donne cui è stato “erogato” questo pubblico servizio: non dobbiamo sforzarci troppo per capire che se il bambino non tornerà indietro, dopo un aborto sono loro, quelle che restano. Le donne.

In tanti anni che lavoro in questo ambito mi sono chiesta perché non si faccia un sondaggio anche non ufficiale, così, tra le chiacchiere di tante amiche in modo che la risposta sia intima, sincera, profonda e non “la risposta esatta”, per capire se le donne che hanno usufruito di questo diritto sociale all’aborto ritengono di aver avuto un grande privilegio. Dal canto mio, posso rispondere senza presumere di rappresentare tutto l’universo femminile, ma a nome di quel campione di circa 4000 donne che noi abbiamo seguito dopo una interruzione di gravidanza, delle quali nessuna è fiera di aver abortito e non ritiene di aver fatto un passo avanti nel suo personale progresso sociale in quanto donna, per l’aver usufruito di questo diritto.

«Forse qualcuno ti dirà che insieme a tuo figlio morirai anche tu, ma questa è una verità relativa, la verità schiacciante è che non morirai affatto, a te sarà concesso di vivere, e quella sarà la tua punizione più grande. Vivere con un fardello enorme da portare, con la consapevolezza che tu, solo tu, hai ucciso tuo figlio. Tu che dovevi amarlo e proteggerlo, tu che sei la sua mamma, l’unica di cui tuo figlio ha bisogno» (da Quello che resta, ed. VitaNuova).

Queste poche drammatiche frasi sono la fotografia di un dolore che nessuno vuole ascoltare o vedere, di una realtà che socialmente bisogna tenere sepolta perché guardarla non è politicamente corretto; e questo è lo sberleffo, il danno dopo la beffa che si infligge alle donne. 
Neanche gli abortisti incalliti ritengono più che l’aborto sia una scelta facile, non ti diranno più che è come togliere un dente, eppure nessuno vuole sentir parlare di una donna che dopo un aborto si strappa i capelli… sì, anche nel senso fisico del termine. O che si butta sull’alcool, sulla droga o sulle storie di sesso insensate. O che non riesce a guardare più in faccia i propri figli, o il proprio marito o compagno; che allo scoccare di ogni anno viene assalita da un inspiegabile magone, da accessi di pianto… ed agli occhi di tutti diventa quella “strana”, quella “depressa”, quella che “lo vive male”.

C’è qualcuno che vive bene la morte di un figlio? Immagino che se incontrassimo qualcuno che ci dicesse: “Sai oggi mio figlio si è schiantato contro un tir, vado a mangiare una pizza, vieni?” allora sì, dovremmo preoccuparci; e non troveremmo alcuna stranezza in una donna che si dispera per la morte di un figlio.

Ma… saremmo a disagio. Saremmo sì ugualmente a disagio e non vorremmo telefonarle perché “che cosa le dici?” – niente… che vuoi dire a una madre cui è morto un figlio? Come si fa a consolarla? Quali parole possono cercare di colmare questo vuoto? E allora cercheremmo forse di evitarla e i più coraggiosi, magari dopo qualche giorno, andranno a fornirle un silenzioso abbraccio. Oppure si aspetterà… perché il tempo lenisce le ferite, si dice, le cura.
La morte ci mette a disagio, eppure fa parte della vita il morire. E nessuno ci ha garantito che moriremo in grande pace nel nostro letto di casa, né a noi, né ai nostri figli.
E cosa si può dire a quella madre cui è morto un figlio ed è stata lei stessa a condannarlo a morte senza capire cosa stava facendo? Quella donna che piange, piange perché vorrebbe tornare indietro nel tempo, perché avrebbe voluto incontrare qualcuno sulla sua strada che le avesse mostrato un’alternativa al suicidio… sì, perché questo strambo suicidio in cui essa resta in vita, in perenne agonia, è una morte lenta, non del corpo certo, ma non è meno morte.

Ho detto “senza capire cosa stava facendo”. Ebbene sì. Nel 2012, ripeto, senza capire cosa stava facendo. Io non ho seguito delle pazze che andavano ad abortire gridando “voglio fare a pezzi mio figlio!”. Ho seguito donne spaventate, terrorizzate, che non avevano alcun sentimento di odio verso il bambino, ma che in quella gravidanza non riuscivano proprio a vederlo.
Si parla spesso di lessico che modifica le coscienze, e ritengo che sia profondamente vero. 

Con il termine “gravidanza” è molto più difficile riuscire a identificare un figlio, rispetto a quando si ha davanti un bambino bello e nato. Se qualcuno avesse messo in braccio a quelle mie stesse donne un bimbo di qualche giorno che avrebbero dovuto crescere loro, avrebbero sbuffato, si sarebbero arrabbiate, avrebbero battuto i piedi in terra, ma non gli avrebbero torto un capello. No, non sono donne arrabbiate contro il bambino: costoro sono donne ingannate, perché quel bambino non riescono proprio a vederlo, al di là di quel panico irrazionale che le attanaglia. Panico che è anche fatto di una subdola coercizione attuata a livello sociale. Da una società che ti definisce stupido se fai figli, che per questo ti castra sul posto di lavoro, e ti rende tutto terribilmente difficile; da una famiglia che non è accogliente e ti fa sentire più sbagliata di quanto già ti senti perché sei rimasta incinta in un momento che forse non era il top o perché questo è il terzo o quarto figlio… neanche li andassero a partorire loro. Da uomini che promettono eterno amore e dichiarano anche di volere con te un figlio ma poi come esce il test positivo spariscono come il mago Zurlì, o nel peggiore dei casi si pongono come ricatto perché quel figlio, concepito da tutti e due, da uno solo venga fisicamente eliminato.

Affinché questo si inizi a poterlo vedere, prima che a volerlo vedere, è necessario che cambi la mentalità; che cambi qualche altra cosa dentro ciascuno di noi, che ci si senta responsabili di un silenzio coatto in cui sono state chiuse tutte quelle centinaia di migliaia di donne che hanno abortito e che stanno soffrendo. 

Occorre che tutti aprano gli occhi su una realtà: quella dei dati del Ministero della Sanità che parla ogni anno di circa 130mila aborti. Pensateci bene: supponendo che non sia sempre la stessa ad andare ad abortire, sono in totale 130mila donne. Sono ottimista? Va bene, vogliamo essere pessimisti: allora saranno 90mila? 70mila? E dove stanno? Dove sono? A fare le maestre mentre tengono i nostri figli vivi e ripensano continuamente al loro che hanno eliminato? A curare altri bambini in casa piangendo in bagno le somiglianze che immaginano ci sarebbero state con il figlio che oggi non c’è? Negli uffici, al bar, dove sono? In casa nostra? Nel nostro palazzo? E noi, perché non le riusciamo a vedere? Perché non riusciamo a vedere che aiutare una donna a portare avanti una gravidanza in qualunque situazione si trovi è un investimento per tutti noi?

Si stima che una donna su quattro abbia abortito almeno una volta. Io auguro a ciascuno di avere il coraggio di prendere la sua agenda e per tutte le donne che conosce si faccia una domanda: chi? E anche un’altra domanda: come sta? E provi a rispondersi. E magari – che non guasta – a trovare il coraggio di esporsi e chiedere, di sentire il desiderio di dare speranza a chi nella sua vita non la vede e pensa di non meritarla più, ma soprattutto di smetterla di sostenere che la scelta delle donne sia suicidarsi con un aborto e di avere voglia di spendersi per la vita, delle donne e dei bambini, perché nessuno si salva da solo e tutti siamo chiamati in gioco.

* presidente della associazione "Il dono" onlus (www.il-dono.org), che si occupa di seguire le donne che hanno avuto un aborto 

(tratto da www.labussolaquotidiana.it)