lunedì 23 settembre 2013

Reggio: convegno organizzato dall'AIPD Associazione Italiana Persone Down



“Amare la vita appassionatamente - Jérôme Lejeune e la Trisomia 21" questo il titolo del convegno organizzato per domenica 29 settembre,  a Reggio Calabria, presso la sala Giuditta Levato del Palazzo del Consiglio Regionale, con inizio alle 10:30, dall'AIPD Associazione Italiana Persone Down.
Jérôme Lejeune  - come ebbe modo di affermare Giovanni Paolo II - nella sua condizione di scienziato e di biologo era un appassionato della vita e arrivò ad essere il più grande difensore dei diritti dei nascituri con sindrome di Down. A lui si deve la scoperta della trisomia 21, l’anomalia cromosomica che caratterizza le persone con sindrome di Down, e il conseguente studio sulle patologie spesso associate alla sindrome, con l’obiettivo di gettare le basi per l'introduzione di terapie innovative.
Parlerà di lui, e del suo messaggio, che continua ad essere quanto mai vivo, il Prof. Pierluigi Strippoli, Responsabile del Laboratorio di Genomica del Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna. Il suo lavoro si ispira, infatti, all’opera scientifica di Jérôme Lejeune per svilupparne le intuizioni con i moderni strumenti della genomica.
L’AIPD, che è attiva sul territorio provinciale reggino, per il sostegno e la condivisione delle esperienze tra famiglie al cui interno vi siano persone con sindrome di Down, nei mesi scorsi ha già proposto il convegno “Essere diversi è normale” in cui si è discusso soprattutto di integrazione.
Con l’iniziativa programmata per il 29 settembre, intende ulteriormente coinvolgere la cittadinanza, stavolta sotto un profilo strettamente scientifico, su un tema che coinvolge tutte le Istituzioni poiché la problematiche legate alla crescita e alla realizzazione sociale delle persone con Sindrome di Down non possono appartenere solo alle famiglie direttamente coinvolte.
I lavori, coordinati dall’arch. Maria Giuffrida, socio AIPD, saranno introdotti dal Presidente della sezione AIPD di Reggio Calabria, Bruno Arichetta, e vedranno la partecipazione dei massimi rappresentanti istituzionali.

Fonte: http://www.strill.it/

venerdì 20 settembre 2013

LA MIA VITA E’ PIENA DI ... LETIZIA



di Anna Fusina


Riportiamo la testimonianza di Ester di Paolo,  madre di Letizia, una ragazza down di 22 anni.

-          Ester, ci parla del suo rapporto con Letizia?

Ester di Paolo: La cosa più bella che mi è capitata nella vita è la nascita di mia figlia Letizia che è una ragazza Down.
Più di tanti altri fatti indiscutibilmente bellissimi accaduti in questi anni, dall’incontro con mio marito, alla nascita delle altre due figlie, della nipote, alle amicizie, al lavoro, capisco che più di tutto ciò, il rapporto che mi lega a lei è, in maniera più evidente, vero, profondo, invincibile, un rapporto pieno di gratitudine per il fatto che lei c’è, che esiste.
E’ un vero privilegio.
Questo amore profondo non posso spiegarlo più di tanto.
E’ amore vero perché è un rapporto che non è fine a se stesso: cioè che si comprime tra me e lei, o tra lei e la famiglia, o ancora tra lei e gli amici.
Un rapporto fine a se stesso si ridurrebbe al calcolo dei passi fatti, al raggiungimento determinato di alcuni traguardi: vi si introdurrebbe una misura su ogni prestazione.
E’ un rapporto, invece, in cui c’è come un pertugio da cui entra ed esce aria e che non lo fa scoppiare, inaridire, bloccare. C’è qualcosa che viene prima di me e di lei, c’è qualcosa di più grande di me e di lei che ci rende perfino liberi di sbagliare, di raggiungere o meno i traguardi prefissati così da amarci profondamente e liberamente e quindi di goderci la vita.

-          Quando e come ha saputo che sua figlia  Letizia era down?

Ester di Paolo: Dopo il parto, in ospedale, quando mi  portavano Letizia in camera, lei dormiva quasi sempre, e si sa, tutti i neonati si somigliano quando hanno gli occhi chiusi. Quando li apriva pensavo: "Non è molto bella." Ma non ho mai sospettato che fosse Down. Non me ne sono proprio accorta.
Passati i primi 5 giorni di rito, previsti dall'ospedale come naturale degenza delle puerpere, non mi mandarono a casa. Intanto le visite di mio marito, di mia sorella, di persone inaspettate si facevano più frequenti. All'inizio del settimo giorno, dopo aver passato il sesto con un certo disagio, cominciai a chiedere come mai mi trattenessero ancora. Lo chiesi a tutti i dottori che passavano in reparto. Nessuno mi disse la verità: tutti cercarono di tenersi sul vago dicendomi di aspettare con pazienza. Evidentemente non volevano scavalcare il primario, al quale spettava la decisione di dirmelo. In realtà, il giorno successivo, quando passò la visita del mattino di tutti i medici, ostetriche, infermiere e primario ormai esasperata dall'attesa, sapendo che a casa mi aspettavano  altre due figlie di 6 e 3 anni, trovai il coraggio di richiedere, per l'ennesima volta, il motivo per il quale neanche quella mattina pensavano di mandarmi a casa. "Allora dottore," dissi "quando potrò uscire?". Il primario subito rispose fra il seccato e il distratto: "Ma... dobbiamo aspettare il risultato della mappa!" Il resto dell'equipe presente attorno al letto, si trovò in evidente imbarazzo, l'ostetrica farfugliò qualcosa, il dottore capì che non sapevo, borbottò fra sè e sé qualche parola e se ne andò, seguito dagli altri medici, lasciandomi lì.
La parola "mappa" non mi aveva particolarmente colpito, ma era l'unica che stonava. Frugai nella mente per capire dove l'avevo già sentita... Non  so quanto tempo passò tra quel momento e l'arrivo di mio marito con gli occhi  arrossati di pianto (minuti, ore o giorni davvero non lo so). Proprio in quel momento si svelò con chiarezza l'enigma. Fu davvero l' attimo rivelatore. Non seppi come, non seppi perché ma davanti a quegli occhi di pianto, tutti gli indizi andarono in giusta successione, e prima che lui potesse parlare dissi: "E' down?" Fece "sì" con il capo, mentre piangeva. Ovviamente, siccome lui piangeva, io dovevo fare la "forte", se avesse fatto lui il "forte" io avrei pianto. Aggiunsi con voce strozzata: " E' nostra figlia e ce la teniamo così com'è". Naturalmente fece di nuovo "sì" col capo.
Rimprovero all'ospedale solo l'atteggiamento del primario che evidentemente non aveva seguito di persona il "caso" e nonostante ciò si è permesso di pronunciare le parole più gravi che potesse dire, senza confrontarsi con chi ci aveva seguito più da vicino, come la mia ginecologa, o un altro medico amico di famiglia, primario in un altro reparto dello stesso ospedale. Mi è sembrato un atteggiamento estremamente superficiale e dannoso, per non dire peggio.
Invece, a parte questo increscioso episodio, l'aver scoperto tutto gradualmente, l'esserci arrivata piano, piano, l'averlo saputo dalla persona a me più cara è stato il sistema, almeno nel mio caso, più naturale.
All'uscita dall'ospedale c'erano ad attenderci mia sorella ed una carissima amica molto più grande di me che era venuta quasi tutti i giorni a trovarmi all'ospedale, inaspettatamente, visto che era rettrice di una grossa scuola di Pesaro ed era sempre molto occupata. A lei, appena l'ho vista, ho chiesto a bruciapelo: "Ma quando Letizia sarà grande, come farà?"
Dentro questa semplice e giustificata domanda c'è tutto lo sgomento di una mamma che innanzitutto ha già due figlie, una mamma addosso a cui piomba un fulmine improvviso, un peso che sembra più grande di qualsiasi altro peso al mondo. Perciò la risposta che mi ha dato mi ha illuminato: "Butta via questi pensieri (che sono proiettati verso un futuro che non c'è, che non si può conoscere adesso, che sono come un salto nel buio di un'assenza) e “vivi l'attimo" che significa "vivi adesso!". Cioè: apri la portiera della macchina, carica la carrozzina, arriva a casa, infila la chiave, entra, posa la carrozzina, sorridi alla nonna, vai all'asilo a prendere le sorelline, guardale e chiedi loro come è andata, ascolta la risposta e domanda ancora, ecc.”
Ogni gesto ha il suo peso, il suo significato.
Era un significato così intenso e vero, mai provato prima.     
-          A Letizia sono stati riscontrati problemi di salute alla nascita?
Ester di Paolo: Una volta confermata la sindrome, i medici hanno voluto fare accertamenti sullo stato cardiaco di Letizia, visto che molto spesso la sindrome di Down è accompagnata da un difetto cardiaco. Infatti era presente un difetto atrioventricolare da operare entro i sei mesi di vita o meglio quando  Letizia avesse raggiunto i sei chili di peso. Cercammo i medici migliori nel campo, aiutati dagli amici, medici e non. Finimmo a San Donato Milanese con l’aiuto del dott. Ilia Gardi, allora primario del reparto cardiologico di Imola, una persona eccezionale che ci ha aiutato moltissimo, ha continuato a seguire l’evoluzione dell’operazione subita da Letizia (complicata e difficilissima) per un anno intero, venendoci a trovare a casa, dapprima tutte le settimane, poi tutti i mesi, come un vero amico. Proprio il Dott. Gardi ci indicò il reparto di cardiologia a San Donato, perché vi operava lì il dott. Frigiola, medico specializzato proprio nella correzione chirurgica del difetto che aveva Letizia. Lasciai a casa le altre due figlie, sempre nei miei pensieri. Mio marito, avendo un lavoro in proprio, non riuscì nemmeno ad accompagnarmi. Fortunatamente rimase con me mia sorella per due giorni, ma poi mi trovai veramente sola ad affrontare i giorni, le ore, i minuti di quello che è stato un lungo mese di degenza lontano da casa. L’impatto con  l’ospedale devo dire che è stato durissimo. Ricordo che mi ripetevo: “Io qui sono la mamma di una bambina down”. E’ una spersonalizzazione che ti ammazza, ti annienta, sei una delle  tante, né la prima né l’ultima. Infatti ce ne erano tante di mamme ricoverate come me, con il loro bimbo Down più o meno grave, si parlava, ci si conosceva un po’, però era raro riuscire a fare amicizia, perché era una vicinanza costretta, non voluta, assolutamente non cercata, visti i presupposti che ci avevano tutti portati fin lì. Nell’anonimato di un  edificio enorme, sgraziato e grigio come era l’ospedale di San Donato milanese, nell’estraneità di medici pur gentilissimi e di infermiere più o meno umane ho veramente contato le ore dei 22 giorni trascorsi lì dentro. Durante i fine settimana veniva a trovarmi mio marito, qualche parente e tutti i giorni alcuni amici pesaresi trapiantati a Milano. Trascorrevano qualche ora con me o mi offrivano la loro casa per lavarmi, mangiare, ecc. Devo dire che proprio la vicinanza di gente conosciuta e che mi conosceva mi faceva sentire Ester Morini, mamma di Maria Letizia Morini. Questa è stata l’esperienza più vera e più bella: riconoscere quale grande umanissimo bisogno è quello di una mamma ed una bimba che non desiderano essere classificate in un reparto per la malattia che hanno, ma per il nome unico e insostituibile che portano, un nome ed un cognome! Nessuno di noi in realtà vuole essere messo nella categoria dove gli altri decidono di metterlo.

-          Qual è ora la vita di Letizia?

Ester di Paolo: Letizia ha fatto le scuole dell’obbligo e alla fine della terza media, trovandomi a dover decidere quale istituto superiore scegliere per lei, ho pensato, quasi all’improvviso, che avrei potuto provare a cercarle un posto di lavoro.
Non l’ho preteso dall’ASL o da altri enti preposti. Mi sono rivolta a questi solo in un secondo momento. Ho iniziato con molta calma a guardarmi intorno, a cercare una qualche occupazione adatta a lei pensando: “Se trovo qualcosa di adeguato, bene, altrimenti la porterò a scuola”. Ho bussato da amici e conoscenti avendo già in mente cosa avrebbe potuto fare. Guardandola, immaginando di dover scrivere un curriculum, mi accorgevo che le mansioni che sapeva svolgere erano tantissime: tagliare, apparecchiare, sparecchiare, pulire il bagno, spazzare, chiudere e aprire le porte a chiave, lavare la frutta, portare l’acqua o le pietanze in tavola, scaricare la spesa sistemarla e riporla, scrivere, leggere, scrivere al computer, navigare su Internet, distinguere i soldi, usare l’ascensore, conoscere i giorni della settimana e l’orologio, chiamare e rispondere al cellulare … e davvero non le mancava nulla per … fare l’assistente delle maestre all’asilo! Ed è proprio andata così.
Una scuola paritaria che la conosceva l’ha assunta con una borsa lavoro erogata dal comune, che ogni mese Letizia va orgogliosamente a riscuotere allo sportello della banca: mostra il documento, firma e intasca lo stipendio.
Con la prima mensilità tutta la nostra famiglia è andata a mangiare fuori. Abbiamo ancora le foto.
Letizia lavora 4 ore al giorno da due anni, mangia con i bimbi, quando torna è stanca come chiunque. E’ felice, se ha voglia racconta quello che combinano i suoi bambini o le sue colleghe. E’ contenta quando arriva il venerdì, controlla quanti giorni mancano alla domenica ma se le chiedo, per una qualche ragione, di assentarsi dal lavoro o di entrare più tardi, non vuole assolutamente. E’ contenta di rispondere al compito che le è stato assegnato, vuole andarci a tutti i costi, perché è giusto così, perché è il suo lavoro, perché l’aspettano, sia gli adulti che i bambini.
Il pomeriggio c’è sempre qualcosa da fare, non sta mai con le mani in mano. Mai.
Letizia scrive, va in internet, andiamo ad un doposcuola per bambini dove io lavoro come volontaria, viene un’amica a trovarla due volte alla settimana,  ci sono persone a cena, e soprattutto il sabato, insieme agli amici si mangia meglio degli altri giorni: pizza, lasagne, piadina …
Ci sono le telefonate giornaliere delle sorelle o dei cognati, che abitano a Bologna. 
Le sorelle l’amano perché ci hanno visto amarla, l’amano perché Letizia non è mai stata al centro della nostra vita familiare come non lo sono state loro.
A questo proposito,  ricordo che un incontro determinante per la nostra vita fu quello con la Dott.ssa Aliverti di Varese. Dovendo qui riassumere in una frase il percorso di un anno di incontri con lei, pressochè bimestrali, lo racchiuderei in questa sua frase: "Il punto da educare siete voi. Letizia va stimolata, seguita, sollecitata, spinta a fare tutto, ma è necessario educare chi in prima persona la stimola, la segue, la sollecita, la spinge a fare tutto."
I primi, in questo senso sono sicuramente i genitori che a loro volta sono figli, nel senso che apprendono, INSIEME vivono l'educazione come rapporto con un Altro più grande, più grande di tutti, che ci ha fatto, brutti o belli, down o normali. Un Amico che essendo più grande e più potente di me e di te, rimette nel giusto ordine tutte le cose della vita. La mamma e il babbo vivono questo rapporto tra loro e con l'Altro in maniera affascinante, in una compagnia di amici che è bello seguire, da cui possiamo imparare come si affrontano i problemi, il lavoro, lo studio, la relazione tra  fratelli, quella con i figli, TUTTI I FIGLI.
Anche le sorelle e via via tutti quelli che nel tempo hanno avvicinato a vario titolo Letizia, hanno imparato ad amarla così profondamente e intensamente.
Le sorelle l’amano e se la contendono: “Quando voi due (noi genitori) non ci sarete più verrà a stare da noi”. E l’altra: “No! Da noi”. Letizia sorride lusingata, soddisfatta. Ma in effetti ridiamo tutti.
Ecco un’altra verità: si ride, si ride sempre tanto in casa nostra. Letizia è buffa, imprevedibile, comica, perché anche noi lo siamo, per indole familiare, tutti.
Questo ho voluto comunicare: la nostra è una vita piena, totale, anche nei momenti più difficili, non necessariamente legati a lei, nel senso che abbiamo problemi come quelli di tutte le famiglie italiane, soprattutto in questo grave momento di crisi.
Ma in questo nostro vivere quotidiano, uguale a tante altre persone, non ho mai detto: “Ci mancava anche questa”.
La nostra non è un’accettazione mesta, è vita piena di … LETIZIA, da godere.

Fonte: http://vitanascente.blogspot.it

martedì 17 settembre 2013

Grazie a mia moglie e ai miei figli che mi danno la vita!





http://www.comune.cagliari.it/resources/cms/images/solidariet_d0.jpg 
Riportiamo la testimonianza di Riccardo Cerantola, malato di  SLA e padre di due figli


Sono un papà di 39 anni, malato di Sla, una delle malattie più terribili che possa colpire l'uomo.
La Sla (Sclerosi Laterale Amiotrofica)  è una malattia neurodegenerativa che porta alla morte di tutte le cellule che servono a far muovere tutta la muscolatura volontaria e quella che serve per poter camminare, parlare, respirare...
Avevo solo 33 anni quando iniziarono i primi sintomi, ma mai nessuno avrebbe pensato a quale tragedia sarei andato incontro.
Io e mia moglie avevamo coronato la nostra unione dando la vita ad una bimba bellissima: un orgoglio indescrivibile.
Nel frattempo i mesi passano e la malattia continua il suo corso, si passa da un ospedale all'altro, con la speranza che la diagnosi cambi!
Nostra figlia intanto cresce velocemente, e lei, così piccina, mi dà  così tanta carica di vita che a volte mi scordo addirittura della malattia.
La vita continua; malgrado la vistosa decadenza del fisico, non demordo.
Mia moglie rimane incinta del secondo figlio, da noi voluto, anche contro il parere dei medici, che ce lo sconsigliavano onde evitare ulteriori problemi.
Ma per me e mia moglie, per noi, qualunque sia l'esito, il figlio é dono, é vita, é nuovo futuro!
Dopo 9 mesi nasce un bimbo. Non potete immaginare cosa ho provato in quel momento.
Con una disabilità grave che avanzava senza guardare in faccia nessuno, divento nuovamente padre.
I mesi passano, i bimbi crescono, e io peggioro più velocemente di quello che si pensi.
La Sla é riuscita ad annientarmi totalmente. Lei ti toglie tutto così, senza scrupoli, lasciandoti totalmente lucido da guardare cosa ti riesce a fare.
In noi, malati di Sla, lo scorrere del tempo fa sì che il nostro corpo diventi un estraneo al nostro animo.
Le nostre emozioni, però, sono la ragione dell'immensa voglia di lottare!
Il nostro sorriso, seppur sofferente, emana calore e serenità; lo sguardo profondo e velato di malinconia esprime il coraggio infinito di vivere.
A noi malati di Sla la vita ha negato tutto... "o quasi", lasciandoci solo l'uso degli occhi e del pensiero.
Un pensiero che non si ferma mai e ritorna a quando da bambino correvo nei prati spensierato, pieno di energia e con tanta voglia di diventare grande, o al giorno in cui ho visto per la prima volta mia figlia e l'ho stretta tra le mie braccia o a quel figlio che solo con una mano avevo potuto accarezzare, perchè la Sla non mi permetteva altro.
Niente vacanze al mare, nessuna corsa in bicicletta, nessun bacio e carezza posso più dare ai miei figli..
Nessun semplice gesto mi è più concesso, nemmeno di piangere  per poi asciugarmi le lacrime, perchè sono gli altri che devono asciugarle a me!
Ma la Sla non mi ha negato la voglia di amare e di essere amato, perchè la vita è fatta anche di semplici gesti, di un sorriso, di uno sguardo, delle persone che ti sono vicine e ti sostengono, e piangono e ridono insieme a te.
Adesso i miei bimbi hanno 8 e 5 anni, e sono quasi 4 anni che io sono prigioniero del mio corpo, muovendo solo gli occhi, con i quali vi sto scrivendo attraverso un computer ottico.
Il mio stato attuale é grave: respiro grazie a ventilatore meccanico, mangio tramite un sondino nello stomaco e sono totalmente paralizzato, e non parlo più.
Questa é la Sla, una malattia senza cura, e che porta più della metà dei malati a scegliere di non vivere.

Ma io ho scelto di combatterla, perché la carica di essere padre e marito supera la paurosa vita da affrontare e la semplicità dell'amore dei propri figli può abbattere qualsiasi barriera. Se loro non ci fossero, sarebbe un'altra vita.
Loro mi  stanno facendo vivere la mia seconda vita attraverso la loro semplicità di amare. Ci sono sentimenti difficili da esprimere con le parole, ci sono sorrisi, sguardi, abbracci impossibili da dimenticare, quando sono da parte dei tuoi figli.
Ringrazio mia moglie e i miei figli per avere dato la vita a un papà prigioniero del suo corpo.
                                                                                          Riccardo

Fonte: vitanascente.blogspot.it