BARI. «Tiramore» ha nove anni e un musetto da scugnizzo biondo. Sua
madre, la dottoressa Rosa Anna Vacca, biologa molecolare e ricercatrice
Cnr all’Istituto di Biomembrane e Bioenergetica di Bari, lo definisce il
più bel dono mai ricevuto, «nato il 23 marzo 2004, giorno del mio
compleanno». 'Tiramore' in realtà si chiama Enrico, ma è così bravo ad
attirarsi l’affetto di tutti che lo hanno ribattezzato così.
Anche se non sempre le cose sono state facili, non all’inizio, almeno:
«Io non avevo fatto l’amniocentesi, perché nella precedente gravidanza
mi aveva provocato un aborto spontaneo, e gli altri test prenatali
risultavano tutti negativi, così non avevo messo in conto che potesse
nascere con la sindrome di Down. Avevamo già altri due figli, ma sentivo
che a tutti i costi ne desideravo un altro e alla fine è nato Enrico:
per questo dico che non è venuto per caso e che è un dono di Dio». Nove
anni dopo, Enrico è la gioia dei fratelli maggiori, 13 e 16 anni, e di
tutta la famiglia. Ma l’inizio è stato duro, soprattutto «per colpa di
genetisti e ginecologi – testimonia la ricercatrice –, subito ti
prospettano un futuro a tinte fosche. Per questo in Italia il 90% delle
coppie di fronte alla diagnosi si spaventa e decide di abortire, se
invece conoscessero la grande ricchezza che questi figli portano,
farebbero un’altra scelta».
Che Enrico sia un bambino felice e capace di donare gioia, è evidente,
così come l’alta lezione che con la sua pulita innocenza può dare a
molti bambini più sani di lui. «Il suo è un amore allo stato puro, privo
di ogni cattiveria, è l’amore più vicino a quello di Cristo», sorride
sua madre, e da scienziata ha anche una spiegazione: «Quel cromosoma in
più che altera l’aspetto razionale nelle persone con sindrome di Down
sviluppa invece quello emozionale, per cui i bambini come lui suscitano
enorme simpatia. Non gli si può resistere». Non ci è riuscito nemmeno
Kay van Dijk, attaccante nella squadra di pallavolo del Molfetta: il
giorno del passaggio in serie A, quei due metri e 15 di gigante hanno
visto tra i tifosi il bambino, lo hanno preso in braccio e hanno
esultato con lui. «Fu un momento straordinario per tutti, due metri di
uomo annullati da un bimbo grande la metà – racconta la madre –, si è
tolto la maglia e gliel’ha data, occhi negli occhi. Chi dice che noi
genitori vorremmo un figlio diverso? Quello che invece ci preoccupa è il
quadro clinico, specie con l’età...».
Ecco allora la lezione di Enrico: la ricerca, oggi massicciamente volta
alla diagnosi prenatale e quindi spesso all’eliminazione del feto,
dovrebbe invece focalizzarsi sulla migliore qualità di vita di questi
pazienti. «Molti studi finiscono sulle riviste scientifiche perché fanno
sfoggio di tecnologie inapplicabili per l’uomo e non hanno alcun fine
terapeutico. Il vero problema invece è che a 45 anni il 50% di loro
soffre già di Alzheimer o invecchiamento precoce. Tutto dipende
dall’alterazione dei mitocondri – spiega la ricercatrice, autrice di
studi sul campo –, le centrali energetiche della cellula. Se si
intervenisse a livello fetale sui mitocondri, potremmo prevenire molte
delle alterazioni». Sono passati 50 anni da quando Lejeune, scoperta la
causa della malattia, auspicò: tutto questo porterà alla terapia.
«Invece ha portato alla loro eliminazione».
di Lucia Bellaspiga
Fonte: Avvenire
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