mercoledì 4 settembre 2013

Mamma e scienziata: «La ricerca miri alla terapia»

BARI. «Tiramore» ha nove anni e un musetto da scugnizzo biondo. Sua madre, la dottoressa Rosa Anna Vacca, biologa molecolare e ricercatrice Cnr all’Istituto di Biomembrane e Bioenergetica di Bari, lo definisce il più bel dono mai ricevuto, «nato il 23 marzo 2004, giorno del mio compleanno». 'Tiramore' in realtà si chiama Enrico, ma è così bravo ad attirarsi l’affetto di tutti che lo hanno ribattezzato così.
Anche se non sempre le cose sono state facili, non all’inizio, almeno: «Io non avevo fatto l’amniocentesi, perché nella precedente gravidanza mi aveva provocato un aborto spontaneo, e gli altri test prenatali risultavano tutti negativi, così non avevo messo in conto che potesse nascere con la sindrome di Down. Avevamo già altri due figli, ma sentivo che a tutti i costi ne desideravo un altro e alla fine è nato Enrico: per questo dico che non è venuto per caso e che è un dono di Dio». Nove anni dopo, Enrico è la gioia dei fratelli maggiori, 13 e 16 anni, e di tutta la famiglia. Ma l’inizio è stato duro, soprattutto «per colpa di genetisti e ginecologi – testimonia la ricercatrice –, subito ti prospettano un futuro a tinte fosche. Per questo in Italia il 90% delle coppie di fronte alla diagnosi si spaventa e decide di abortire, se invece conoscessero la grande ricchezza che questi figli portano, farebbero un’altra scelta».
Che Enrico sia un bambino felice e capace di donare gioia, è evidente, così come l’alta lezione che con la sua pulita innocenza può dare a molti bambini più sani di lui. «Il suo è un amore allo stato puro, privo di ogni cattiveria, è l’amore più vicino a quello di Cristo», sorride sua madre, e da scienziata ha anche una spiegazione: «Quel cromosoma in più che altera l’aspetto razionale nelle persone con sindrome di Down sviluppa invece quello emozionale, per cui i bambini come lui suscitano enorme simpatia. Non gli si può resistere». Non ci è riuscito nemmeno Kay van Dijk, attaccante nella squadra di pallavolo del Molfetta: il giorno del passaggio in serie A, quei due metri e 15 di gigante hanno visto tra i tifosi il bambino, lo hanno preso in braccio e hanno esultato con lui. «Fu un momento straordinario per tutti, due metri di uomo annullati da un bimbo grande la metà – racconta la madre –, si è tolto la maglia e gliel’ha data, occhi negli occhi. Chi dice che noi genitori vorremmo un figlio diverso? Quello che invece ci preoccupa è il quadro clinico, specie con l’età...».
Ecco allora la lezione di Enrico: la ricerca, oggi massicciamente volta alla diagnosi prenatale e quindi spesso all’eliminazione del feto, dovrebbe invece focalizzarsi sulla migliore qualità di vita di questi pazienti. «Molti studi finiscono sulle riviste scientifiche perché fanno sfoggio di tecnologie inapplicabili per l’uomo e non hanno alcun fine terapeutico. Il vero problema invece è che a 45 anni il 50% di loro soffre già di Alzheimer o invecchiamento precoce. Tutto dipende dall’alterazione dei mitocondri – spiega la ricercatrice, autrice di studi sul campo –, le centrali energetiche della cellula. Se si intervenisse a livello fetale sui mitocondri, potremmo prevenire molte delle alterazioni». Sono passati 50 anni da quando Lejeune, scoperta la causa della malattia, auspicò: tutto questo porterà alla terapia. «Invece ha portato alla loro eliminazione».

di Lucia Bellaspiga

Fonte: Avvenire

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