martedì 6 dicembre 2011

L'aborto è un po' anche suicidio

di Francesco Agnoli
30-11-2011


Quando uno ha già qualche anno, non necessariamente più di trenta, è preso talvolta dai ricordi. Il volto di un amico non più frequentato, un gioco, un passatempo, un’avventura dolorosa o felice, risalgono dal pozzo della memoria sino alla superficie, con un gusto agrodolce: ciò che è stato non è più, eppure è ancora nostro. Ciò che è stato non possiamo più riprenderlo, purtroppo, e ci sfugge via. Però non è finito per sempre, in verità, perché ha contribuito a renderci ciò che siamo. Ogni esperienza vissuta si imprime più o meno fortemente in noi, nel nostro animo e nel nostro corpo.

Siamo così, un sinolo di materia e forma, di anima e di corpo, come diceva Aristotele. I materialisti non possono capirlo, perché vedono solo materia che si muove. Gli spiritualisti neppure, perché non capiscono cosa c’entri quel corpo, che pure, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, ostinatamente c’è, nonostante il loro desiderio di trascenderlo, di essere puro spirito, di “liberarsi”. Tutta la nostra storia è qualcosa di spirituale e di fisico, una fusione armoniosa e inestricabile. Il nostro affetto, che sentiamo nel cuore, che non tocchiamo, che ci sembra a tratti infinitamente grande, verso la persona amata, si traduce in un abbraccio, in una fatica, in un servizio, insomma in qualcosa di concreto. Il nostro odio diventa parole, sentimenti, gesti, digrignare di denti.

Così, quando abbiamo una relazione con una persona dell’altro sesso, una relazione affettiva naturale, questa diviene col tempo anche unione carnale, fisica, perché la nostra unità lo esige. Esige che amiamo con tutto noi stessi. Ma se abbiamo amato così, non possiamo poi tirarci indietro pensando che sia senza conseguenze: non possiamo divorziare, senza strappare il nostro passato e quindi anche il nostro presente, e il nostro futuro, senza che tutto ciò che ci portiamo addosso urli a noi stessi, di esistere, di essere stato, di essere in qualche modo ancora. Ma soprattutto, visto che è questo di cui si parla in questi tempi, nessuna madre e nessun padre possono pensare, dopo aver concepito un bambino, di potersene disfare impunemente, con un gesto, fisico, una IVG, come si suole dire con terminologia beffarda.

Ciò che è stato concepito, c’è, esiste, e vive nel cuore e nella carne del padre, anche se lo rigetta, perché in lui vive il gesto che ha determinato il concepimento, e la consapevolezza latente del suo significato. Esiste, soprattutto, il concepito, nella psiche, nella carne della madre. Il bambino non è parte della madre, come dicono gli abortisti, cioè proprietà di lei, come una casa o una macchina, come qualcosa che si possiede, ma che è altro da noi, fuori di noi. Quel bambino è parte della mamma esattamente quanto la mamma è parte di quel bimbo. Parte, sempre, in senso carnale, perché il bimbo è formato dall’ovulo della madre, nutrito in simbiosi dalla madre e ospitato dal suo grembo; “parte” anche spirituale, il concepito, perché in un certo senso “tutto ciò che è spirituale è anche carnale” e “tutto ciò che è carnale è anche spirituale”.

Mi sorprende che quando si affronta il problema aborto, questa verità così concreta non sia quasi mai sottolineata.
Quando il feto viene ucciso, intendo, anche una parte della madre viene uccisa: una “parte” fisica e una “parte” spirituale; anche una parte del padre muore, per sempre. Anche una parte del loro amore, se ne va, tanto è vero che vi sono coppie, come raccontano medici che hanno seguito questi casi, che si separano in seguito ad un aborto; altre che resistono, ma senza più amarsi come prima, tenute insieme magari dal rimorso di quello che hanno fatto e dal ricordo di chi ora potrebbe essere con loro.

L’atto chirurgico, è vero, stacca e uccide qualcosa che sembra a sé stante, che appare, superficialmente, una vita autonoma, seppure ospitata: in verità quella vita era sì individuale, unica, ma era anche l’incontro biologico e spirituale delle vite dei suoi genitori; era anche parte del sangue, del corpo, dello spirito, dei pensieri, dei sogni, della madre (e del padre). Trovo conferma di queste mie riflessioni, studiando un po’ la letteratura medica sul post-aborto, ad esempio nei bellissimi saggi dei dottori Rigetti, Casadei e Maggino, compresi nel libro “Quello che resta” (editrice Vita Nuova), sapiente mescolanza di saggi scientifici e di testimonianze di donne.

In questo testo si spiega chiaramente che “il lutto dell’aborto è plurimo, perché le perdite da affrontare sono molteplici e strettamente concatenate le une con le altre… una donna che interrompe la gravidanza soffre sia per la perdita del bambino che per la perdita di una parte della propria immagine come persona (nei diversi ruoli di figlia, donna, compagna, cittadina, appartenente ad una comunità religiosa ecc.)”. Secondo il DSM III dell’American Psychiatric Association, infatti, l’aborto è considerato un evento traumatico in quanto “produce un marcato stress, tale da creare disturbi alla vita psichica; sopprime gli elementi di identificazione (della donna) col bambino; nega la gravidanza ma anche quella parte del sé che si era identificata col bambino”. Le conseguenze, guarda caso, sono di tipo fisico e spirituale: “disturbi emozionali, della comunicazione, dell’alimentazione, del pensiero, della sfera sessuale, del sonno, della relazione affettiva…”.

Assai sintomatica di quanto si è detto finora, mi sembra proprio l’esistenza dei disturbi affettivi e sessuali, che si giustifica appunto come reazione ad un’esperienza sessuale, affettiva, di cui non è rimasto nulla, o meglio di cui permangono sensi di colpa, rabbia, paura, ripensamenti… Le occasioni del manifestarsi della sindrome post-abortiva sono anch’essi assai eloquenti: compaiono di solito in occasione di una nuova gravidanza, di un aborto spontaneo, di perdite affettive, di sterilità secondaria… Ecco perché un’esperienza d’amore che si conclude con un aborto, non rimane limitata a quel rapporto, a quella storia, ma si trascina e ripercuote anche su un’altra esperienza affettiva, proprio perché la donna, la persona, è una, sempre quella, pur nella molteplicità delle esperienze.

Per questo l’aborto si può configurare, almeno in parte, anche come un suicidio, o, come scrivono alcuni psicologi, un “lutto complicato” in cui si “rende necessaria l’elaborazione sia della perdita dell’oggetto (il bimbo), sia della perdita simultanea e concreta di una parte del Sé”, sia aggiungerei, di un perdita almeno parziale del rapporto col coniuge. Ha scritto la dottoressa Lerda, su una rivista fortemente a sostegno della 194 come Contraccezione, sessualità e salute riproduttiva: “Sia che la donna cerchi di cancellarne il ricordo, sia che continui a sentirne il peso, si tratta comunque di un lutto che si porterà dietro tutta la vita. È una scelta che influenzerà anche il rapporto con il partner e con gli eventuali partner successivi, una scelta che peserà nuovamente in caso di altre gravidanze”.

tratto da: www.labussolaquotidiana.it

La “Sindrome post aborto” è presente anche nei bimbi sopravvissuti

di Stefano Bruni*
*pediatra

Si parla e si scrive con una certa frequenza delle sofferenze e delle problematiche di salute fisiche e mentali delle donne che decidono di abortire. Anche su questo sito sono stati segnalati studi scientifici (ed anche io personalmente ho segnalato parecchi link su questo argomento) che sottolineano come l’interruzione volontaria di gravidanza possa avere in molti casi conseguenze devastanti per chi la vive sulla propria pelle.
Un po’ meno si parla della sofferenza del feto che viene abortito benché siano disponibili alcuni studi scientifici sulla sensibilità dolorifica del feto nell’ambiente uterino. Si tende invece ad oscurare le problematiche e le sofferenze dei bambini sopravvissuti ad un intervento abortivo, mentre praticamente mai si affronta il problema della sofferenza psicologica cui vanno incontro i bambini sopravvissuti all’aborto di un fratellino, o sopravvissuti, a seguito di una pratica di fecondazione assistita, alla soppressione di un certo numero di embrioni “soprannumerari” e non desiderati.
Si tratta di quella che gli autori definiscono “PASS”: Post Abortion Survivors Syndrome. Una sindrome, appunto, cioè una serie di segni e di sintomi ben codificati. In una sua lettera all’Editore (una forma di comunicazione scientifica che un autore fa agli addetti ai lavori utilizzando una rivista scientifica peer reviewed) del Southern Medical Journal di qualche anno fa (2006), il Dr Philip Ney psicologo e psichiatra del Department of Family Practice, Faculty of Medicine, University of British Columbia, Victoria, British Columbia (Canada) descrive segni e sintomi della PASS, una sindrome simile, ma non sovrapponibile in tutto e per tutto, a quella cui vanno soggetti i sopravvissuti ad altre catastrofi (campi di concentramento, disastri aerei, guerre, attentati terroristici, …).
Sullo stesso argomento il Dr Ney aveva pubblicato in precedenza un altro lavoro sul Child Psychiatry and Human Development (1983), intitolato:  “A consideration of abortion survivors” (è solo un estratto ma il lavoro intero è acquistabile online per chi fosse interessato a leggerlo). In sintesi, gli studi effettuati dal Dr Ney lo hanno portato a concludere che i bambini che realizzano che i propri genitori hanno precedentemente (o successivamente alla loro nascita) abortito un fratellino sono ad alto rischio di sviluppare disturbi dello sviluppo o patologie psichiatriche (depressione, psicosi, aggressività, suicidio, insofferenza nei confronti dell’autorità, …).
Alla determinazione di questi disturbi concorrono diversi elementi. Tra gli altri:
1. la paura del bambino nei confronti di genitori che si sono dimostrati capaci di sopprimere la vita di un essere umano di cui invece avrebbero dovuto curarsi; il bambino si sente a rischio di essere rifiutato da un momento all’altro come il fratellino abortito e vive nella paura e nell’incertezza di essere non amato;
2. il senso di colpa (“perché sono in vita io e non gli altri?”) che si genera nel bimbo sopravvissuto come se la scelta di sopprimere il fratellino e mettere al mondo lui fosse in qualche modo legata a lui stesso;
3. una sensazione di onnipotenza o di megalomania nel bambino sopravvissuto che si sente più forte degli altri, più forte della morte stessa, indistruttibile dal momento che è sopravvissuto;
4. l’atteggiamento di sovra-protezione, per i sensi di colpa dei genitori, di cui il bambino viene fatto oggetto;
5. le attese impossibili che il genitore ha sul bambino quando questo è vissuto come «figlio-sostituto» del figlio abortito;
6. un disturbo dell’attaccamento con entrambi i genitori che può portare anche all’abuso o all’abbandono nei confronti del figlio “sopravvissuto”.
Questi sentimenti contrastanti di colpa e di onnipotenza, di abbandono e di iperprotezione talora coesistono paradossalmente e si accompagnano ad un’esposizione al rischio di autolesionismo (il bambino, poi ragazzo e infine adulto si mette in situazioni di pericolo) o di sviluppare malattie psicosomatiche o psichiatriche. In un’altra lettera all’editore, questa volta del Canadian Journal of Psychiatry (1993; 38(8): 577-578), il Dr Philip Ney spiega anche che sebbene ci sarebbe tanto da studiare e da capire relativamente a quanto accade nelle donne che abortiscono o nei bambini sopravvissuti a questa scelta, questi argomenti sono considerati taboo dalla stessa comunità scientifica ed è molto difficile (se non addirittura deliberatamente scoraggiato) per un ricercatore compiere indagini scientifiche su questi temi.
Si dirà che il Dr Ney è persona evidentemente credente e contraria all’aborto e che dunque nelle sue ricerche c’è un bias, un “pre-concetto”.  Tuttavia, se quanto affermato dal Dr Ney è vero (ed io credo che lo sia anche perché le evidenze in questo senso sono tante) allora forse il pre-concetto non toglie obiettività ai credenti contrari all’aborto ma piuttosto la toglie a coloro che sono favorevoli a questa pratica.


tratto da: www.uccronline.it
 

domenica 4 dicembre 2011

La pillola ellaOne: un’altra conferma del piano inclinato

Autore: Tanduo, Luca e Paolo  Curatore: Leonardi, Enrico
Fonte: CulturaCattolica.it

mercoledì 30 novembre 2011

Dopo approvazione da parte dell’Aifa, l’Agenzia Italiana del Farmaco che ha ritenuto la “pillola dei 5 giorni dopo” ellaOne un contraccettivo di emergenza, simile alla “pillola del giorno dopo”, e non un farmaco abortivo, con la pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale essa diventa commerciabile anche in Italia.
Potrà essere messa in vendita nelle farmacie italiane come farmaco di classe “C”, ovvero a carico del paziente, avrà un costo di 35 euro e potrà essere impiegata solo da donne che avranno effettuato preventivamente un test di gravidanza.
Questa limitazione, che pure ha creato non poche polemiche, è solo una magra consolazione per chi si opponeva ad una nuova banalizzazione dell’aborto e della sessualità specie tra i giovani. Inoltre non sarà possibile controllare se le donne che riceveranno la pillola la useranno subito o la terranno per un successivo rapporto non protetto nel quale potrebbe invece risultare positivo il test della gravidanza.
La pillola ellaOne agisce tra il momento della fecondazione e quello dell’annidamento nell’utero, sfruttando l’azione del principio attivo ulipristal acetato, ovvero la versione sintetica dell’ormone sessuale femminile chiamato progesterone. Secondo la casa farmaceutica il principio attivo dell'ulipristal acetato contenuto in ellaOne consente di ridurre del 98% il rischio di gravidanza indesiderata se assunto entro i 5 giorni successivi al rapporto considerato a rischio. Le percentuali diminuiscono se la pillola è assunta oltre le 120 ore. Secondo chi sostiene questo farmaco, il solo effetto indotto è quello di inibire e ritardare il rilascio dell’ovulo da parte delle ovaie attraverso una sorta di “simulazione di fecondazione”, in modo da impedire che avvenga una fecondazione, ma la realtà è diversa: infatti l’azione anti-ovulatoria sembra manifestarsi regolarmente soltanto all’inizio del periodo fertile (il secondo e terzo giorno fertile del ciclo), inoltre è opportuno ricordare che l’effetto della pillola parte dal momento dell’assunzione della stessa. In caso di rapporto in periodo non fertile l’assunzione della pillola sarebbe inutile. In caso di rapporto non protetto nel periodo fertile del ciclo l’assunzione della pillola ellaOne non sarà efficace come contraccettivo perché l’ovulazione avrà avuto già luogo, la fecondazione potrebbe quindi essere avvenuta prima dell’assunzione. Si avrà esclusivamente un’azione anti-annidamento, cioè contragestativo, cioè abortivo. Assurdo sostenere che la gravidanza ha inizio quando l’embrione si annida, la gravidanza inizia con il concepimento. Gli ultimi studi dicono che l’embrione già nelle tube nel percorso che lo porta verso l’utero scambia messaggi tramite ormoni con la madre.
Ancora una volta si realizzerà un aborto a domicilio. Sì, perché il farmaco attraverso il principio attivo ulipristal acetato contribuisce anche ad impedire l’annidamento dell’embrione nel caso in cui sia avvenuta la fecondazione, modificando l’endometrio e il rivestimento uterino di modo che questo non sia predisposto a supportare un’eventuale gravidanza. Sul sito dell’HRA pharma si trova “The primary mechanism of action is thought to be inhibition or delay of ovulation, but alterations to the endometrium may also contribute to the efficacy of the medicinal product”.
La donna sarà sottoposta ad un grosso dosaggio ormonale e sarà lasciata ancora più sola, l’uomo sarà ancora meno coinvolto. Questo avrà sicuramente un impatto a livello educativo. Le conseguenze a livello psicologico dell’avvenuto aborto non saranno per nulla minori per le donne; un sessuologo e psicoterapeuta su Avvenire dice “abortire con una pillola realizza quello che si definisce "proporzionalità traumatica", ossia l’idea che la sofferenza è minore se l’embrione è più piccolo. In realtà, è sempre presente nella donna il senso di colpa, tipico della sindrome del post-aborto”. Inoltre nessuno indica e ricorda le controindicazioni delle pillole, si parla tanto di salute della donna e non si dice mai che assumere ormoni o alterarne le dinamiche può creare problemi alle donne che li assumono, se pensiamo poi che la maggior parte delle “utenti” saranno giovanissime già possiamo immaginare i risultati.
Dovrebbe far riflettere quanto è possibile trovare sul sito dell’HRA pharma: sul Summary of product characteristics della pillola ellaOne troviamo scritto “Children and adolescents: Safety and efficacy of Ellaone was only established in women 18 years and older”, eppure noi lasceremo che sia possibile reperirlo in tutte le farmacie anche alle minorenni. La Società italiana della contraccezione SIC e la Società Medica Italiana per la Contraccezione SMIC il 6 giugno 2011 hanno emanato un paper nel quale sostengono che in base alle leggi vigenti, la prescrizione e somministrazione dei contraccettivi d’emergenza è consentita anche a minorenni fino a 13 anni d’età. Negli ultimi anni con la diffusione dell’uso delle pillole come la Norlevo, 360mila confezioni all’anno distribuite in Italia, il 55% di esse alle giovanissime, si è contemporaneamente registrato un costante incremento nell’abortività spontanea; gli aborti spontanei sono aumentati di 11.000 unità all’anno nel 2001 (+20%), di 17.000 all’anno nel 2005 (+30%) e di 22.000 unità all’anno nel 2007 (+37%), con incrementi del +67% nel 2005 e +80% nel 2010 nelle giovanissime.

In questo paper inoltre si oppongono a quanto scritto dal Consiglio Nazionale di Bioetica (CNB) il 28-5- 2004, e al Codice di deontologia medica del 2001 art.22 che stabiliscono una “clausola di coscienza” per i medici nelle prescrizioni di contraccettivi d’emergenza che contrastino con la propria coscienza. Si oppongono alla nuova presa di posizione del CNB del 25-02-2011 che estende la “clausola di coscienza” anche ai farmacisti. Questo sta diventando un punto decisivo, infatti, spostando il tema dell’aborto e la sua realizzazione dall’ospedale all’uso farmacologico di queste pillole, decisivo diventa il diritto dei farmacisti di obiettare secondo coscienza, anche di fronte a prescrizione medica. Purtroppo in Italia anche l’ordinamento giuridico andrebbe aggiornato per evitare equivoci e proteggere questo diritto. Non si tratta, infatti, di farmaci salva vita; inoltre il tentativo di imporre ad ogni farmacia un medico non obiettore contrasta con la realtà dei fatti, converrebbe allora sostenere che all’interno della stessa ASL il farmaco debba essere reperibile senza imporre nulla alle farmacie che si opponessero alla vendita di questi farmaci potenzialmente abortivi. I numeri se letti bene parlano chiaro.
La commercializzazione di queste pillole ha anche un aspetto economico non secondario. L’HRA Pharma, la farmaceutica francese è già produttrice della pillola della giorno dopo. Impressiona il fatturato di questa azienda francese, 43,7 milioni di euro nel 2010 con un utile di 7,53 milioni. Solo in Italia con la vendita della pillola del giorno dopo ha avuto utili di 82.663 euro (dati tratti da èVita del 17 novembre 2011). Significativi sono gli scopi che si prefigge quest’azienda, come si trova facilmente sul sito dell’HRA Pharma: “Mettere a disposizione delle popolazioni più povere i propri prodotti è uno degli impegni aziendali che proprietà e management hanno assunto fin dal primo momento. HRA ha profuso sforzi significativi nello stabilire legami consolidati con ONG internazionali e autorità locali. L’Azienda partecipa a numerose iniziative che hanno lo scopo di promuovere l’educazione alla contraccezione e di facilitare l’accesso ai prodotti nelle aree più remote e povere del mondo”. Nella versione inglese che descrive il NorLevo program lanciato nel 2001 appare chiaro quali sono gli elementi da contrastare perché impediscono una più rapida diffusione dei loro prodotti “to facilitate access to emergency contraception for women on low incomes or who live in remote areas, or those countries where traditionally, social and religious norms and government policies have restricted access to emergency contraception”.