A
due anni e due mesi di vita un bimbo dovrebbe ricordare l’immagine di
Gesù bambino che l’iconografia tradizionale ci offre: allegro e
spensierato, con la sua mamma e il suo papà. E invece guardando il corpo
martoriato di Lucia viene da pensare a Gesù crocifisso.
Una
flebo infonde farmaci al suo corpicino collegata ad una vena di un
piedino. Il resto del corpo è cosparso di petecchie e di ematomi. La
cute è pallidissima per effetto della grave anemia che
la affligge. Gli occhietti, appena visibili tra i cerotti che le
attaccano al viso una mascherina per l’ossigeno, non sono i suoi soliti
occhietti vispi e pieni della gioia di vivere: sono spenti, malinconici,
impauriti. Già, impauriti. Chiunque entri nella sua cameretta, nel
reparto di onco-ematologia dell’Ospedale in cui è ricoverata, Lucia lo
guarda con terrore; lo sguardo corre dall’intruso alla mamma che le è
accanto, in cerca di protezione; e poi torna all’intruso e si vela di
qualche lacrima; e poi ancora alla mamma. Ma le forze sono scarse e
Lucia non riesce ad attaccarsi alla mamma.
Quegli
intrusi sono lì per curarla; sono medici ed infermieri, vestiti di
bianco, di verde, qualcuno persino con dei fiori disegnati sul camice.
Sono gentili; dietro le mascherine, che indossano per
non trasmetterle malattie che ne aggraverebbero le condizioni, sorridono
a Lucia che però è troppo piccola e spaventata per riuscire ad intuirlo
solo dai loro occhi. Vallo tu a spiegare ad una bimba di due anni e due
mesi che quelle siringhe piantate nelle pieghe dei gomiti e sulle mani e
i piedi (come i chiodi che hanno attaccato Gesù alla croce), quei lacci
che prima della puntura della carne la stringono, provocando vistosi
ematomi (come il flagello con cui è stato frustato Gesù) a causa del
bassissimo numero di piastrine che le sono rimaste, quella mascherina
(che mi ricorda tanto la corona di spine imposta a Gesù) che le rende
difficile persino piangere sono strumenti non di tortura ma di cura? A
Lucia hanno appena diagnosticato una leucemia acuta. A
due anni e due mesi. Come può una bimba di due anni e due mesi
affrontare una prova di questa gravità? Eppure non è la prima volta che
Lucia deve affrontare una ospedalizzazione per una malattia importante.
Ricordo
quando il papà e la mamma me la portarono la prima volta in
ambulatorio. Avevano l’impressione che la bimba respirasse male. Ed
avevano ragione. Lucia, quando l’ho visitata, era fortemente dispnoica,
cioè aveva difficoltà a respirare; conseguentemente il suo sangue si
ossigenava con difficoltà e il saturimetro, uno strumento che serve a
misurare lo stato di ossigenazione del sangue, mostrava valori
preoccupanti. Quando posso cerco di gestire senza ricoverare i bimbi
ammalati. Ma in questo caso ho dovuto inviare immediatamente in Ospedale
Lucia. Aveva poco meno di due mesi, allora, e una bronchiolite, una
grave infezione causata da un virus particolarmente pericoloso nel
lattante, il Virus Respiratorio Sinciziale. Per fortuna Lucia, quella
volta, dopo qualche giorno di Ospedale e le cure del caso ha iniziato a migliorare
ed è guarita ed ha potuto tornare a casa. L’ho visitata successivamente
diverse volte, per episodi infettivi banali e anche semplicemente per
valutarne la crescita. Sempre sorridente, mai impaurita dalla visita;
quando è stata in grado di farlo, ricordo che, seduta sul lettino,
prendeva il martelletto e imitava i miei gesti nel tentativo di evocare i
riflessi rotulei, poi si metteva il fonendoscopio intorno al collo come
fosse una collana e imitava un’ascoltazione del torace sorridendo. Una
bimba normale, dolcissima, con i suoi ricci castani ed i suoi occhi
scuri, profondi. Le guanciotte rosse, così lontane dal colorito pallido
di questi giorni.
Per qualche mese
non ho visto la bimba. La mamma mi ha poi detto che andava tutto bene.
Si era anche adattata molto bene all’asilo nido e, a parte qualche
raffreddore e un paio di faringiti, tutto sembrava andare nel migliore
dei modi. Poi, una settimana fa (ndr: sette giorni prima che io abbia
sentito il bisogno di raccontare la sua storia), una febbre che persiste
da qualche giorno, una tosse che alla mamma “non piace”, la visita
dalla pediatra di famiglia che nota qualche petecchia sulle gambe e
sotto le palpebre e consiglia un ricovero per accertamenti. Poche ore e
molti prelievi ed esami strumentali dopo il ricovero, mentre Lucia
appare sempre più prostrata, la terribile diagnosi: leucemia acuta.
Non un segno premonitore, nulla che facesse pensare a questo “tsunami”,
devastante per la famiglia di Lucia. La mamma mi chiama al telefono e
piangendo mi racconta cos’è successo. La sua piccola Lucia ha la
leucemia. Non ho parole: la mia piccola Lucia (i bimbi che seguo in
ambulatorio li sento un po’ anche miei, non me ne vogliano i loro
genitori) ha la leucemia. Ha solo due anni e due mesi, com’è possibile?
Eppure lo so che è possibile: ne ho visti tanti di bimbi piccolini con
malattie altrettanto gravi. Ma non riesco a farci l’abitudine. Proprio
non ci riesco.
Il primo impulso è di
andarla a trovare in Ospedale, abbracciare il papà e la mamma per far
loro sentire, per quello che può contare in momenti come questo (ma
credo che possa contare qualcosa), che se lo vogliono possiamo fare insieme questo pezzo di strada,
dolorosa, in salita ma con una meta che oggi, a differenza di qualche
anno fa, è certamente alla portata di Lucia: la guarigione. E così,
lasciandomi guidare dal cuore, vado. Lucia è sul suo lettino, con il suo
orsetto accanto ed il lenzuolino, la sua copertina di Linus, saldamente
stretta in mano. È pallidissima; sulle braccia e sulle gambe vistosi
ematomi indicano i tentativi di cannulare le sue piccole vene per
prelevare il sangue per gli esami ed infonderle le prime terapie. Sul
lettino, dei pennarelli ed un libricino da colorare, tentativo di
distrarla e farle passare qualche momento da bambina, a fare qualcosa da
bambino, a pensare che la vita è colorata anche nel grigio e nella
penombra di quella stanza. Unica altra nota di colore, il rosso luminoso
del sensore del saturimetro avvolto intorno ad un ditino del piede. Ci
scherziamo sopra con Lucia; che si tocca il piedino, ma non riesce a
sorridere.
Le hanno prelevato anche
un campione di midollo osseo: la diagnosi è certa, le prospettive quelle
di un trattamento lungo e faticoso, di una guarigione possibile, e di
anni, lunghi anni di controlli e di ansia per la mamma, il papà, i
nonni. Nella mia carriera di medico ho visto tanti bambini, di tutte le
età, soffrire. È una cosa cui non ho voluto abituarmi, cui non ci si può abituare.
Nei reparti di terapia intensiva neonatale, nelle stanze del Pronto
Soccorso, nella medicheria dell’onco-ematologia pediatrica dell’Ospedale
in cui ho lavorato (dove ho fatto la mia prima guardia di 12 ore, in un
giorno di Pasqua che ricorderò per tutta la vita) o negli ambulatori
dove ho visitato bambini con gravi e rare malattie genetiche, ho
conosciuto la disperazione di tante mamme e di tanti
papà, ho toccato con mano la loro sofferenza insieme a quella dei loro
figli. E mi sono domandato tante volte perché Dio permetta questa sofferenza,
tanto più in coloro, i bambini, che rappresentano l’innocenza, che sono
i più indifesi. Ma ho visto anche tanta luce, tanta speranza, tanta
forza e tanta fede.
Ho visto
l’angoscia dell’oggi ma anche la speranza nel domani. Ho visto una
mamma (una come tante) gioire insieme ad un medico per un emocromo con
qualche migliaio di piastrine in più e un papà (uno come tanti) fermarsi
e dedicare finalmente qualche ora in più al suo bambino rimproverandosi
per non averlo fatto prima. Mi è capitato di piangere
insieme a chi piangeva e di sorridere con chi aveva motivo di
speranza. Ho sentito tante persone gridare, come Gesù sulla croce (non
vi sembri blasfemo questo paragone: Gesù non era forse un uomo come noi,
anche se Dio? e noi non siamo forse fatti ad immagine e somiglianza di
Dio stesso?) “Dio mio, Dio mio: perché mi hai abbandonato?”. Ma ho visto
nei gesti concreti di tante persone la realizzazione di
quell’affidamento a Dio sintetizzato nelle parole “sia fatta la tua
volontà”. Ho sentito genitori urlare silenziosamente “basta!”, di fronte alle sofferenze dei loro bambini. Ma un attimo dopo li ho visti
ricominciare a lottare insieme ai medici accanto ai figli, circondati
dall’amore della famiglia. Amore che può fare tantissimo, perché quando
si è soli a lottare si può pensare di non farcela, ma insieme è tutta
un’altra cosa. Con l’aiuto e l’amore degli altri questa paura svanisce e
le persone trovano un vigore ed un coraggio che non sapevano di avere,
una speranza nuova. Alla faccia di chi vorrebbe chiudere la pratica con
una molto più economica e asettica “eutanasia”.
Lucia è ancora seduta sul suo lettino. È appoggiata ai due cuscini che la sostengono, debole com’è. Penso che non dovrebbe esserle capitato ciò che le è capitato: è così piccola… Ma chi sono io per dire
se sia giusto o no ciò che le è capitato? Di una cosa sono certo, però:
non è Dio che ha voluto questa sofferenza per lei. Dio è il contrario
del male. E anche di un’altra cosa ho la certezza assoluta, perché l’ho
visto centinaia di volte: Dio si mette accanto a chi soffre, si offre di fare questo pezzo doloroso e difficile di strada insieme. Lo fa “in incognito”,
servendosi dei medici, dei propri cari, degli amici, anche di estranei
che ci accorgiamo ad un certo punto di avere accanto. Ma lo fa anche in
prima persona, direttamente e intimamente nel cuore di chi lo accoglie,
cui grida (mi sembra di sentire la sua voce): “Vedi, io ero sulla
croce prima di te, conosco le tue sofferenze; ma ora sono qui, davanti a
questo sepolcro vuoto, perché ho vinto la morte. Dammi la tua mano:
portiamo insieme la tua croce.”
La
mamma di Lucia, quando la saluto, ha gli occhi lucidi ma non ha più
lacrime. Le ha già piante tutte. Trova la forza per abbozzare un
sorriso. Ma non sembra un sorriso di circostanza: entrambi sappiamo che
non c’è motivo, in questa situazione, di aspettarci un sorriso di
circostanza, né da lei né da me. È dunque un sorriso sincero, una
richiesta di vicinanza, un dialogo aperto. Lucia mi segue con lo sguardo
mentre esco dalla stanza. Non dice nulla. Non sorride, come invece
faceva quando la visitavo nel mio ambulatorio. Ma nel suo sguardo,
almeno in questo momento non c’è più la paura che vi ho
letto all’inizio della mia visita. Nell’atrio incontro il papà e la
nonna di Lucia che sono rimasti fuori per permettermi di stare qualche
minuto nella stanzetta insieme a Lucia: mi rendo conto che ho portato
loro via dei minuti preziosi che avrebbero voluto passare insieme alla
loro bimba. Chiedo scusa. E loro invece mi ringraziano e
mi fanno sentire davvero parte della loro famiglia. Il papà vuole
accompagnarmi fin fuori dall’Ospedale. Non ha molte parole da dire.
Rispetto al dolore, grandissimo, certamente, in questo momento
prevalgono l’incredulità e la paura. Siamo d’accordo che mi
aggiorneranno per telefono sulle condizioni di Lucia e che io ogni tanto
tornerò a trovarla.
Le mie
conoscenze scientifiche mi dicono che la percentuale di sopravvivenza
libera da malattia per le patologie del tipo che ha colpito Lucia è piuttosto alta.
La mia esperienza umana di medico mi dice che per quanto alta possa
essere questa percentuale si tratta comunque di un semplice numero che
ha un valore molto relativo per una famiglia al cui
bimbo è stata appena posta una diagnosi tanto brutta. Il mio cuore mi
urla che mentre i colleghi che hanno in cura Lucia si prodigheranno per
trasformare quella probabilità in una certezza io, insieme a tutti
coloro che vogliono bene a Lucia possiamo fare qualcosa di tanto piccolo
e semplice quanto grande ed importante: possiamo stare vicino a lei,
alla sua mamma e al suo papà, camminare al loro fianco, riflettere
l’amore e la vicinanza di Gesù a questa famiglia.
È una storia triste questa? Certo, umanamente non la si può definire in altro modo. Ma forse anche no. Perché dove c’è la sofferenza c’è spazio per la solidarietà umana,
per la compassione, quella vera, quel patire insieme che significa
distribuirsi un po’ il peso della sofferenza, fisica, psicologica,
morale. Ma soprattutto nella sofferenza c’è Dio, che
non la vorrebbe certamente per noi , suoi figli, come nessun papà e
nessuna mamma vuole la sofferenza per i propri figli, ma che si serve
anche della solidarietà umana per accendere la luce della speranza. Il
papà di Lucia mi saluta. Ci stringiamo la mano. È una stretta forte,
sincera. Come il sorriso che mi fa.
fonte:uccronline.it
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