22 maggio 2013
di Francesco Elios Coviello
Si è svolto ieri pomeriggio, nell’ aula magna del Policlinico di Bari, gremita di studenti, medici, professori e semplici curiosi, l’incontro di inaugurazione della mostra Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi? Genetica e natura umana nello sguardo di Jérôme Lejeune, che verrà esposta al pubblico nel corso di questa e della prossima settimana.
Invitati a
presentarla sono stati tre ricercatori correlati, ognuno a suo modo,
alla scoperta e alla persona del medico francese che scoprì la Trisomia
21 e che è protagonista dell’esposizione. Domenico Flagiello, docente di
Biologia dell’Università di Parigi VII “D. Diderot”, conosciuto dagli
studenti durante la scorsa edizione del Meeting di Rimini come prima
guida ai pannelli della mostra, ha fatto un’interessante premessa: “La
proposta che viene presentata nel salone antistante quest’aula, da
domani pomeriggio a sabato mattina, non è una rinuncia alla propria
sensibilità o alla propria idea, ma uno sforzo di immedesimazione, una
possibilità di scoprire lo sguardo di Jérôme Lejeune, come
riporta il sottotitolo, e di vedere le cose dal suo punto di vista
inedito e sorprendente”. Una sorta di scambio di occhi, quindi, ed è
proprio dagli occhi chiari e dal sorriso sincero e insieme appassionato
del geniale pediatra, genetista e biochimico che prende avvio questo
viaggio nella sua esperienza, animata da una tensione instancabile alla
verità. Questa forza si esprime dunque in un’esigenza, quella della
ricerca scientifica, applicata alla realtà della sindrome di Down, così
vicina nel reparto di pediatra del Saint-Louis di Parigi e così oscura
nelle cause e nella terapia, e porta alla brillante intuizione,
avvalorata poi da evidenze sperimentali, del cromosoma in più nella
coppia 21. E’ il 1958, questa è l’origine della patologia e questa la
strada giusta per comprendere anche le altre malattie cromosomiche.
Nasce così la moderna citogenetica, seguono altre scoperte, come quella
della causa della sindrome del cri du chat, e la ricerca non si ferma
all’eziologia o alla descrizione dei sintomi ma si apre alla prospettiva
della cura. A questo punto appare tutta l’umanità e la compassione di
Lejeune, medico per vocazione e ricercatore per necessità, dove la
necessità è quella di trovare una cura e di farlo al più presto, prima
che si possa decidere se loro, i suoi piccoli pazienti, debbano vivere o
morire, prima che si possa giocare all’immatura dama della selezione
artificiale e dell’eugenetica. “Allora resta una via, una sola, guarirli
e guarirli in fretta.” E ancora: “Troveremo. E’ impossibile non
trovare, è molto meno difficile che mandare un uomo sulla luna”. “Quella
di Lejeune è la storia di un ottimista” afferma Flagiello: “non per
indole ma per realismo, non per una predisposizione positiva alla vita
ma per un’acutezza di sguardo, propria di un eccellente scienziato, che
non trascurava nessun fattore e che andava dritta al problema, con la
fiducia, anch’essa razionale, di poter comprendere e di poter guarire.” E
prosegue: “Lavorando con un mio professore, ch’era stato allievo di
Jérôme Lejeune, ho compreso quanto la ricerca sia un continuo domandare,
in maniera esponenziale, e fare una scoperta significhi aprire
centinaia di nuovi interrogativi. Egli, come il suo maestro, credeva
bene che il nostro intelletto possa comprendere le leggi dell’universo,
col quale è in sintonia.” Ma Lejeune non è solo questo, è anche il
medico che compatisce i genitori in difficoltà, che consola e che ridà
fiducia, come dimostrano le testimonianze di tanti padri, madri e figli
trisomici. “E’ tutto questo ma è un uomo solo, una persona unita,
integra, dunque medico sì, ma fino in fondo all’anima” conclude il
professore.
La parola spetta a
questo punto a Rosa Anna Vacca, ricercatrice del CNR di Bari ma innanzi
tutto madre di un bambino trisomico. “Io e mio marito l’abbiamo accolto
pieni di dubbi, guardando solo gli aspetti negativi della situazione, ma
poi abbiamo riconosciuto in lui un dono, vera espressione di un amore
eccezionale, seppure dotato di una maniera semplice di esprimersi come è
quella di mio figlio Enrico”. La dottoressa ha poi chiarito le
caratteristiche principali della malattia e i suoi aspetti più
preoccupanti, come la tendenza a invecchiamento e neurodegenerazione
precoci. Sono stati menzionati i
fattori e le proteine responsabili di alcuni dei sintomi e i loro
effetti e si è parlato della complessità a scoprire i completi
meccanismi metabolici che dal cromosoma soprannumerario condurrebbero
alle caratteristiche note, considerando anche l’intricato network
d’informazioni e d’influenze che s’intesse all’interno del genoma umano.
Ha anche comunicato la scarsa attenzione che la ricerca biologica
rivolge alla cura per la trisomia 21, più orientata alla miglior
definizione dei metodi di diagnosi prenatale, e la diminuzione nel corso
degli ultimi anni dei soggetti trisomici in Italia, al punto da far
riferire alla sindrome di Down la definizione di malattia rara,
con un affetto su duecento. Ed a realizzare ciò ha contribuito la
frequenza di aborti e l’utilizzo della diagnosi prenatale come mezzo di
riconoscimento e selezione e non opportunità di cura prima del parto.
Ritorna perciò l’esperienza di Jérôme Lejeune, conosciuta dalla
dottoressa Vacca per caso nel cercare un ente che finanziasse le sue
ricerche sui mitocondri e su un estratto del tè verde che riattiva la
loro funzionalità riducendo lo stress ossidativo e il deficit
bioenergetico. Lo studio su questa molecola,
l’epigallocatechina-3-gallato, è stato finanziato dalla Fondazione
Lejeune, istituzione chiave in Francia per la ricerca sulla trisomia 21 e
sulle altre patologie di origine cromosomica, fondata l’indomani della
morte del genetista, nel 1996. L’estratto ha inoltre la proprietà di
superare le barriere ematoencefalica e placentale e così si presenta
come una possibilità di poter intervenire in senso terapeutico sul feto
affetto, come era negli auspici del pediatra e genetista francese.
L’ultimo intervento è
quello di Pierluigi Strippoli, medico e professore di Biologia Applicata
dell’Università di Bologna, che ha voluto esordire con un ragguaglio
storico sulla sindrome e sul suo studio, partendo dalla prima
descrizione medica dell’inglese John Langdon Down ed evidenziando
l’accento di razzismo che era contenuto nella prima definizione della
condizione, “mongolismo”, a cui si associava la torma dei pregiudizi cui
l’ignoranza sulla patologia dava adito. Jérôme Lejeune vince su queste
congetture e dimostra, con la pura lucidità del medico e dello
scienziato, ch’essi, i trisomici, come dopo il 1959 vengono chiamati,
sono uomini e dotati di pari dignità rispetto a qualsiasi altro
individuo. E le parole di Bruno, il ragazzo trisomico che al termine del
funerale del medico francese, nel 1994 a Notre Dame, strappa un
microfono per poter parlare, esprime palesemente questa realtà: “Ti
ringrazio mio professore per quello che hai fatto per mio padre e mia
madre. Grazie a te, sono fiero di me.” E’ un uomo che cambia la vita
delle persone che lo incontrano, grazie a uno sguardo che non esclude
nulla, nemmeno il dolore, ed è pronto a rischiare tutto – anche un
premio Nobel – per la riuscita della sua impresa, quella di trovare una
cura e di difendere i suoi piccoli pazienti. E cambia la vita anche a
chi lo conosce indirettamente, come a Strippoli stesso, che racconta di
aver scelto di dedicarsi alla ricerca subito dopo la laurea in Medicina e
Chirurgia e di essere stato indirizzato dal suo professore allo studio
della sindrome di Down. Per nulla motivato, intraprende tiepide ricerche
e tuttavia scopre che, sebbene nel 2000 sia stato completato il
sequenziamento del cromosoma 21, un gene di circa 100.000 basi non è
ancora stato scoperto. Determinante è però l’incontro con la famiglia
Lejeune e il monito di questa: “You must see patients.” Convinto, il
medico bolognese inizia a frequentare l’ambulatorio e a incontrare i
bambini, seguendo le orme del genetista francese, e da questo momento
sgorgano giovani intuizioni, oltre all’inesauribile insegnamento che c’è
sempre da imparare. “Mi pare che questi bambini non abbiano tanta
difficoltà nel comprendere quanto più nel comunicare” afferma il
ricercatore, che ha ripreso lo studio sulla malattia. “La sindrome
di Down è una malattia che fa paura: perché mentre per molte altre sono
pochi i geni implicati, per questa non se ne conosce il numero preciso e
quindi la sfida è nel trovare il musicista che stona”,
nell’efficace metafora riportata anche in uno dei pannelli della mostra.
E le intuizioni di Lejeune, considerato da Strippoli uno dei più grandi
scienziati del ventesimo secolo, continuano ad essere studiate proprio
per la loro lungimiranza, straordinaria per l’età storica e i mezzi:
“Egli già diceva che la trisomia è una malattia da intossicazione, noi
lo stiamo studiando, ed inoltre negli individui considerati normali
v’è comunque una piccola percentuale di cellule mutate, trisomiche e
monosomiche, pari in media al 2%, e la differenza con i soggetti Down
sta in questa percentuale, che cresce, ma in uno spettro variabilissimo.
Da cosa dunque noi decidiamo chi è normale e chi no e, ancor peggio,
chi ha diritto alla vita e chi alla morte?” Conclude il ricercatore:
“Inoltre Jérôme Lejeune era convinto che partendo dalla trisomia si
possano capire le monosomie e noi ci stiamo rendendo conto che il modo
migliore è questo.”
Cosa resta della vita
di un uomo così grande, così arditamente innamorato della vita e
dell’uomo, così realista eppure così ispirato dall’alto ideale? La
certezza che si può continuare a cercare e, ancor più, la certezza che
la risposta c’è, gli sguardi, le parole, i volti e l’opera di chi cerca
ne sono la promessa.
Troveremo. E’ impossibile non trovare, è molto meno difficile che mandare un uomo sulla luna.
La mostra rimarrà
esposta nei giorni dal 22 al 24 maggio nello spazio antistante l’Aula
Magna del Policlinico, dalle ore 14.00 alle 20.00, il 25 maggio nella
mattinata, e poi continuerà ad essere fruibile nell’aula D del palazzo
di Biologia, nel Campus Universitario di Bari, negli orari 8.00-9.00,
13.30-15.00, 17.00-20.00.
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