di
Anna Fusina
Il desiderio di un figlio da
parte di una famiglia è del tutto naturale ed umanamente
comprensibile.
La famiglia è fondamentalmente
orientata alla generazione, anzi, si può dire che l'aspirazione alla
genitura è insita nella persona, è “scritta nel DNA” di ognuno.
Attualmente
però si assiste sempre più spesso alla rivendicazione del diritto
ad avere un bambino,
magari con qualunque mezzo, più o meno eticamente lecito.
“Così,
talvolta, concentrata sulla presunta onnipotenza degli aspiranti
genitori,
- come ha affermato Gianmario Fogliazza – la
procreazione biologica si trova a ridurre il figlio nel cosiddetto
prodotto del concepimento; non importa quando e come conseguito o
raggiunto, interessa ottenere quanto desiderato, comunque ed in ogni
caso. La procreazione viene così ad essere vissuta anche secondo
logiche di riproduzione, dove il figlio ridotto a prodotto, è con
sincero sentimento desiderato, ma con assoluta determinazione
preteso: presunzione assicurata dalle biotecnologie e tutelata da
un'arrendevole e mediocre prassi giuridica in grado di considerare
la “esigibilità della prestazione”, ma non l'esito della
stessa.”1
Secondo
Adriano Pessina “la
tecnologia ci sta abituando all'idea che non esistano limiti ai
nostri desideri e progetti ma soltanto ostacoli (qualcosa che si può
superare). Ma nella vita morale esistono invece anche ostacoli
(qualcosa che si può tecnicamente superare) che debbono essere
assunti come “limiti”, cioè come confini che non debbono essere
superati perché sarebbe male il farlo.”2
Accade
però purtroppo in vari casi che “il
desiderio è trasformato in diritto, il figlio è preteso prima che
accolto, la genitorialità vissuta secondo logiche di possesso, non
secondo prassi di incondizionata dedizione.”3
Esiste veramente il diritto ad
avere un bambino?
Le conseguenze di questa
rivendicazione si ripercuotono sulla relazione genitore-figlio e sono
senz'altro negative.
Quando si parla di diritto
infatti si mette al di sopra di tutto l'adulto e la sua esigenza di
soddisfare un bisogno di autorealizzazione individuale, la sua voglia
di affermazione individualistica ed egoistica a scapito delle reali
esigenze di cui è portatore il bambino, che viene in tal modo
strumentalizzato a piacimento dell'adulto.
Focalizzandosi
sul bisogno dell'adulto, inevitabilmente le esigenze del bambino
passano in secondo piano: il rapporto diventa in tal modo del tutto
sbilanciato.4
Non esiste più il diritto del
bambino ad avere una famiglia, a sviluppare la sua vita nelle
condizioni migliori: emerge solo il diritto dell'adulto a “possedere”
il figlio.
Tale
atteggiamento è stato definito da Giovanni Paolo II
“utilitaristico”,
poiché frutto della “civiltà
del prodotto e del godimento, una civiltà delle 'cose' e non delle
'persone', una civiltà in cui le persone si usano come si usano le
cose.”5
Il
figlio è invece innanzitutto “ un
'io' che emerge dentro una relazione d'amore che sa farsi
costitutivamente luogo di accoglienza e di custodia. Maternità e
paternità responsabile sono termini che indicano innanzitutto la
maturità morale di un atteggiamento capace di farsi carico di
un'altra esistenza e non semplicemente la tecnica programmatrice di
chi produce secondo i propri tempi ed i propri progetti l'esistenza
altrui”.6
La genitorialità viene ad
essere esclusa nel caso in cui l'adulto, il più “forte” del
rapporto, decida in modo unilaterale.
Quando si pensa e si vuole il
figlio come affermazione delle proprie facoltà o come prova della
propria riuscita nella vita o nella relazione di coppia, molto stesso
si mietono delle delusioni: il bambino non riuscirà certamente a
colmare le 'lacune' dei genitori.
Egli non può costituire il loro
“completamento”. Non possono gravare ipoteche o 'aspettative' sul
suo arrivo in famiglia, come ad esempio la futura restituzione di
affetto o la risoluzione di un matrimonio in crisi.
Il figlio, invece, secondo il
pedagogista Ferdinando Montuschi, è la solidificazione,
l'intensificazione di una relazione di coppia, che arriva a
trasformarsi in dono:
“La
vita di coppia può essere considerata la scuola attraverso la quale
due esseri umani, legati da una relazione totalizzante, impegnativa
e coinvolgente su tutti i piani del rapporto, impara a diventare
accogliente verso un terzo. (…) L'accoglienza reciproca di due
adulti innamorati è impegnativa ma sempre meno rischiosa rispetto
all'accoglienza di un bambino: almeno nelle situazioni 'normali'
l'adulto si può difendere, può verbalizzare il proprio disagio, può
organizzarsi per sottrarsi a relazioni troppo irrispettose: il
bambino no, la sua vita e il suo benessere, il suo sviluppo e il suo
futuro dipendono totalmente dalla coppia.”7
Il
figlio deve essere accolto come un dono, abbracciato nella sua
unicità ed originalità, amato
per ciò che è, anzi, perché è.
Solo così sentirà veramente di
appartenere ad una famiglia, di trovarsi in un luogo sicuro,
protetto.
Solamente in tal modo svilupperà
la sua fiducia nei confronti della vita e riconoscerà il padre e la
madre come genitori autentici, pieni di significato, sentendosi
accettato e valorizzato come membro attivo della famiglia.
Fonte:
vitanascente.blogspot.it
1G.
FOGLIAZZA, Il figlio preteso, in “Il Foglio” –
AIBI n. 58/59 (2000), pp. 6-7
2A.
PESSINA, Procreare in famiglia nel contesto della cultura
tecnologica: desideri e valori morali, in “La Famiglia”
n. 211 (2002) p. 25
3G.
FOGLIAZZA, cit., p. 7
4S.
BONINO, Un figlio per forza in “Psicologia
contemporanea” n. 254 (1999) p. 12
5GIOVANNI
PAOLO II, Gratissimam Sane - Lettera alle famiglie
(2/2/1994) in “Enchiridion della famiglia”, (cur.
Pontificio Consiglio per la famiglia, EDB, Bologna 2000, pp. 313-314
6A.
PESSINA, cit., p. 24
7M.T.
PEDROCCO BIANCARDI, Il figlio desiderato, il figlio rifiutato
in “La Famiglia” n. 180 (1996), p. 29
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