“Essere o non essere, questo è il problema”. Contesto,
quello della tragedia shakespeariana, completamente diverso da quello
in cui mi appresto ad addentrarmi. Ma domanda centrata: “Essere o non essere: questo è il nocciolo della questione!”: il feto è o non è un essere umano vivente,
unico ed irripetibile, con coscienza di sé e dunque in quanto tale
persona e perciò soggetto di diritti, in primis quello alla vita?
Sembra che di questi tempi tutti tranne
che il feto abbiano diritti, e che ciascuno sempre di più ne reclami per
se stesso (salvo poi dimenticarsi dei doveri che da questi diritti
discendono e che dovrebbero essere la condizione per meritarsi i diritti
stessi). Anche tra i più illuminati ben pensanti, un qualche generico
diritto anche del feto viene accettato, ma questo è pur sempre subordinato,
in second’ordine rispetto a quello della madre. Come dire: un diritto
“parziale”, che c’è e non c’è ed è comunque limitato. Limitato dal fatto
che il feto non è persona, si dice, e se non è persona non può essere
soggetto di diritti.
Ma cosa vuole dire essere una “persona”?
E perché il feto non sarebbe una persona? Non sono un filosofo né un
teologo e nemmeno un giurista. Quello che voglio proporre è un’opinione
che trae spunto da solide evidenze scientifiche.
Ormai anche gli abortisti più convinti (almeno quelli con un minimo di cultura e senso logico), hanno dovuto inchinarsi all’evidenza biologica-genetica-tassonomica che feto ed embrione umani sono un “essere umano vivente unico e irripetibile”. Dal punto di vista genetico l’uomo è diverso
da qualsiasi scimmia, gorilla o macaco che sia (se si esclude una certa
somiglianza tra questi primati e coloro che si ostinano a negare la
suddetta evidenza scientifica!) e ogni uomo è diverso da qualsiasi altro uomo, gemelli inclusi. Un uomo non è
il suo patrimonio genetico ma certamente il suo DNA lo caratterizza e
lo distingue da tutti gli altri esseri viventi. Su queste evidenze
dunque non mi soffermerò, avendolo tra l’altro già fatto in articoli e
commenti precedentemente postati su questo sito.
Se dunque ogni embrione e ogni feto è un essere umano vivente unico e irripetibile, come si può giustificarne
la soppressione senza che ciò configuri un omicidio e dunque un vero e
proprio atto criminoso? Pare che la giustificazione risieda nel fatto
che embrione e feto non sarebbero “persona” in senso giuridico e per questa loro condizione dunque non possano essere considerati titolari, soggetti di diritti, ivi incluso quello alla vita.
Ho letto molto spesso ed ho sentito dire altrettante volte che un pre-requisito essenziale della “personalità” è la “coscienza di sé”.
E siccome, si sottolinea, il feto non ha coscienza di sé allora non può
essere considerato persona e dunque soggetto di diritti. Una difesa del
feto nei confronti dell’aborto non può prescindere quindi dalla soluzione di questo primo, originale (nel senso di: “che sta alle origini”) problema, cioè cosa sia la coscienza e se il feto sia cosciente o no. “Essere o non essere”, il dilemma ritorna.
Trovo che per definire la “coscienza” possa essere interessante leggerne la definizione che ne dà il CICAP, ente certamente non confessionale. È una delle più interessanti che ho trovato: “…
uno stato soggettivo di consapevolezza sulle sensazioni psicologiche
(pensieri, sentimenti, emozioni) e fisiche (tatto, udito, vista) proprie
di un essere umano e su tutto ciò che accade intorno ad esso. La
soggettività della coscienza è data dal fatto che ogni persona ha una
propria modalità di rapportarsi alle esperienze e tale modalità dipende
in gran parte da un determinato stile culturale di appartenenza. … In un
individuo la consapevolezza di se stessi e dell’ambiente si struttura
grazie ad un insieme di funzioni psico-fisiologiche come la percezione,
la memoria, l’attenzione, l’immagazzinamento e l’elaborazione delle
informazioni, tutte dipendenti l’una dall’altra e controllate dal
cervello. Tutte le informazioni, sia esterne che interne, passano
attraverso i nostri organi recettori (occhi, naso, recettori muscolari)
e, dopo aver raggiunto il sistema nervoso, vengono da quest’ultimo
elaborate.”
Un’interessante review di autori francesi pubblicata nel 2009 su Pediatric Research tenta
di sostenere come tutte le reazioni identificabili nel feto con le
moderne tecnologie siano in realtà probabilmente pre-programmate e con
un’origine sottocorticale inconscia. Questi autori sostengono che il
feto dorme per la maggior parte del tempo e si trova
quindi in stato di incoscienza, in parte anche a causa dell’effetto di
una sedazione endogena legata al basso livello di ossigeno del sangue
fetale, all’effetto del pregnanolone e della prostaglandina D2 prodotta
dalla placenta. Nello stesso articolo però gli autori citano due
elementi che dal mio punto di vista indeboliscono la loro posizione.
L’evidenza sperimentale che tentare di svegliare un feto con uno stimolo doloroso provoca un aumento della sedazione anziché il risveglio mi fa pensare che lo stato di sedazione, di abbassamento dello stato di coscienza abbia un effetto protettivo
nei confronti del feto. Ma, mi chiedo, da cosa dovrebbe essere protetto
il feto se non proprio da dolore e sensazioni spiacevoli che, se non
avesse un qualche livello di coscienza non significherebbero nulla per
lui? Dunque se la natura ha fatto in modo di proteggere il feto dal dolore significa che il feto può esserne cosciente.
In altre parole si tratta di uno stato di “ridotta coscienza” artificiale,
esattamente come quella che mettiamo in atto con la sedazione
palliativa nei malati terminali o più semplicemente nelle persone che
devono sottoporsi ad un intervento chirurgico. Non è che queste persone
non abbiano una coscienza; semplicemente l’abbiamo ridotta per evitare
loro la sensazione spiacevole del dolore, fisico o psichico. L’altro
elemento che trovo contraddittorio di questo articolo è che da una parte
gli autori ammettono che il neonato ha un cervello in una fase di
sviluppo “transizionale” che progressivamente evolve verso quello
dell’adulto, mentre sembrano dimenticare che questo “continuum” di sviluppo
ha in realtà origine molto prima della nascita del bambino. Se dunque,
come gli autori ammettono, un neonato ha una propria coscienza, ancorché
minima ed in evoluzione, perché mai questo non dovrebbe essere
altrettanto vero anche per il feto?
In realtà, sempre più lavori originali stanno apparendo in letteratura riguardo l’esperienza sensoriale-intellettiva
che un feto è in grado di costruirsi già in epoca molto precoce.
Quell’esperienza che a nulla varrebbe se non potesse essere elaborata a
livello cosciente e che invece è in grado di strutturargli addirittura una “memoria” propedeutica
allo sviluppo successivo, durante la fase post-natale. Posso di seguito
citare per brevità, a titolo meramente esemplificativo, solo alcune di
queste evidenze scientifiche.
Oggi siamo in grado di studiare la risposta del feto alla voce della sua mamma con metodiche funzionali non invasive e sappiamo che già dalla 19° settimana di gestazione è possibile osservare una risposta fetale come conseguenza di una stimolazione sonora. Il cuoricino del feto batte in maniera diversa quando ascolta la voce della sua mamma e questo accade già dalla 29° settimana
di gestazione. Ma la cosa più bella è che questa sua capacità, con il
progredire continuo delle competenze fetali, che segue la maturazione
funzionale delle strutture cerebrali a ciò deputate, permette al feto di memorizzare e riconoscere,
una volta che sarà nato, la voce della madre tra le tante voci che
ascolterà, di provare interesse particolare nei confronti di canzoni o
musica che gli siano state fatte ascoltare nel periodo prenatale,
addirittura di dimostrarsi più attento e più incline ad imparare fonemi
ascoltati in utero anziché espressioni linguistiche non proprie della
sua mamma. È ormai assodato che il feto impara ad ascoltare e riconoscere, cioè elabora
le sensazioni sonore che lo raggiungono e ne immagazzina nella memoria
gli elementi essenziali che poi gli torneranno utili per il successivo
sviluppo delle proprie competenze dopo la nascita. Questi ed altri studi
suggeriscono una capacità di memorizzare esperienze e di imparare attraverso queste esperienze
che, già nel feto, evidentemente devono fare riferimento ad un livello
più alto di controllo (sottocorticale/corticale), rispetto a quello
rudimentale del tronco encefalico.
Il feto presenta le papille gustative già alla 7° settimana di gestazione ed è dimostrato
che l’esposizione in utero a sapori diversi (il feto deglutisce
numerose volte nelle 24 ore il liquido amniotico e ne percepisce dunque
il sapore che varia al variare dell’alimentazione materna) fa sì che il
neonato ricordi e preferisca quei sapori che ha
conosciuto in epoca molto precoce durante il suo sviluppo. I gusti del
bambino perciò si formano anche grazie all’esperienza maturata
nell’ambiente uterino. Anche l’olfatto fetale è già strutturalmente
maturo entro il terzo trimestre di vita prenatale e alla nascita il
bambino è in grado di riconoscere odori percepiti in utero attraverso il
contatto del liquido amniotico con i suoi recettori olfattivi.
Sappiamo oggi (anche qui) che il feto prova dolore
già in epoca molto precoce del suo sviluppo. Perché ci sia dolore
occorre non solo che siano funzionanti i recettori che distinguono e
raccolgono le sensazioni perifericamente, ma anche che ci sia una struttura centrale
in grado di elaborare le varie sensazioni determinando una reazione
emozionale. Studi su neonati anche gravemente prematuri dimostrano
ampiamente come stimoli tattili o dolorosi evochino una robusta attività
corticale e dunque una percezione cosciente del dolore. Così come prova
dolore, il feto è capace di elaborare e ricordare anche le sensazioni piacevoli.
Tra gli altri studi, molto interessanti sono quelli compiuti osservando
le risposte alle coccole materne di neonati molto prematuri (dei feti,
in pratica, che vivono e proseguono il loro sviluppo nell’utero
surrogato che è l’incubatrice). La kangaroo-care,
ad esempio, cioè tenere il piccolo prematuro a contatto della pelle
della mamma, tra i suoi seni, sappiamo che tranquillizza il bimbo. È stato anche osservato
come un prematuro riesca a concentrarsi sulle parole e le coccole della
mamma tanto da essere distratto dal dolore provocato ad esempio da un
prelievo venoso. In un bell’articolo pubblicato
lo scorso anno gli autori sottolineano come lo sviluppo del feto sia
una progressione di eventi all’interno dei quali si può individuare
anche un’attività, ancorché rudimentale, di tipo cognitivo, correlata all’apprendimento.
Dunque non mi pare possano esserci dubbi
su cosa, chi siano embrione e feto. Salvo voler negare le evidenze
scientifiche, alla domanda se “sia o non sia” una persona umana vivente
in formazione, unica e irripetibile, con una propria “esperienza” razionale di sé e dell’ambiente
che lo circonda e quindi con un qualche livello di seppur minima
“coscienza”, genetica, biologia, neurologia, neurobiologia,
neuroradiologia, fisiologia, ricerca scientifica e medica e il semplice
buon senso danno una risposta inequivocabilmente positiva. Una bella review scritta da un neonatologo intensivista italiano riassume così, nel titolo del suo articolo, l’evidenza: “Il feto è una persona? Un’evidenza clinica”.
Se dunque il Codice Civile Italiano recita che
“La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita. I diritti
che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati
all’evento della nascita (462, 687, 715, 784).” mi verrebbe da dire che alla luce delle scoperte scientifiche che, in maniera incrementale, stanno spostando sempre più precocemente l’evidenza di una “personalità” del feto, il Codice Civile dovrebbe essere rivisto. Fissare al momento della nascita il godimento di diritti relativi alla personalità dell’individuo umano è arbitrario,
così come lo è fissarlo in un momento specifico dello sviluppo fetale.
Limiti fissati sulla base delle conoscenze di ieri sono abbondantemente
stati anticipati dalle evidenze disponibili oggi e probabilmente saranno
ulteriormente anticipati col progredire della scienza medica e la
conoscenza del feto.
Leibniz lo aveva detto, anche se riferendosi ad altro tema: “Natura non facit saltus”. Lo sviluppo dell’uomo è un continuum
che inizia al momento del concepimento e continua per tutta la vita,
prima intrauterina e poi alla luce del sole. E in questo sviluppo non si può individuare un “salto di qualità” che trasforma completamente una realtà in un’altra. Il feto è uno di noi, una persona;
anche se debole e per certi versi “mancante” di alcuni attributi della
maturità e del pieno vigore intellettivo (questo non vale forse anche
per il prematuro? e per l’ammalato? e per l’anziano? eppure nessuna
persona sensata si sognerebbe di dire che prematuro, malato e anziano
non sono persone). In altre parole l’essere-uomo coincide con l’essere-persona. E questo non solo guardando la realtà dal punto di vista scientifico.
Ma se il feto è una persona, può essere
legittimo un diritto della donna a sopprimere quello che certamente É un
INDIVIDUO umano con una propria, ancorché preliminare, “esperienza
razionale”? Ed ecco che ancora una volta torna l’amletico dubbio: “Essere o non essere: questo é il punto”. Cioé se sia o non sia un diritto per la donna
sopprimere quell’essere umano capace di sentire suoni, gusti e odori,
di vedere, di provare piacere e dolore, in altre parole di “assaporare”
la vita nell’ambiente che dovrebbe proteggerlo e supportarne lo sviluppo
e di crearsi un’esperienza propedeutica al suo adattamento alla vita
extrauterina; se sia o non sia un diritto della donna interrompere, negare il diritto di nascere,
“abortire” questo meraviglioso continuum che conduce ad un nuovo uomo o
a una nuova donna. E, non volendo essere politicamente corretti, la
risposta mi é molto chiara: non può esistere un diritto del più forte di sopprimere il più debole, non quando parliamo di uomo.
Spero di avere spiegato il mio pensiero e
di avere fornito sufficienti elementi scientifici a supporto della mia
opinione. Ho citato solo una piccolissima parte dei lavori presenti
nella letteratura scientifica internazionale sull’argomento; chi volesse
può approfondire il tema con una semplice ricerca su PubMed.
Il monologo di Amleto continua, dopo il celeberrimo incipit: “…se
sia più nobile d’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi
dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e
combattendo disperderli … Chi vorrebbe, se no, sopportar le frustate e
gli insulti del tempo, le ingiustizie del tiranno, il disprezzo
dell’uomo borioso, le angosce del respinto amore, gli indugi della
legge, la tracotanza dei grandi, i calci in faccia che il merito
paziente riceve dai mediocri, quando di mano propria potrebbe saldare il
suo conto con due dita di pugnale? … Così ci fa vigliacchi la
coscienza; così l’incarnato naturale della determinazione si scolora al
cospetto del pallido pensiero. E così imprese di grande importanza e
rilievo sono distratte dal loro naturale corso: e dell’azione
smarriscono anche il nome…”. Quasi un involontario monito per chi, come me, crede fortemente nel valore della vita umana
in ogni suo istante di sviluppo, a non schierarsi, per quieto vivere,
dalla parte del “politicamente corretto” ma ad impegnarsi, per amore
della vita, nella battaglia in sua difesa.
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